sabato 20 aprile 2024

14/07/2018 06:23:01 - Manduria - Cultura

Il canto, presente in vari centri dell’antica provincia idruntina, sembra ispirarsi, in maniera molto libera, ad un fatto realmente accaduto nella Napoli del XVII secolo

 
 A circa un anno di distanza, torno ad occuparmi dell’antico canto dedicato alla Madonna del Carmine per riprendere, anche alla luce di ricerche più accurate, il discorso che avevo lasciato sospeso.
 Nel precedente contributo, pubblicato il 6 Luglio 2014 su questo giornale, avevo esaminato ed approfondito soprattutto l’aspetto religioso del componimento dialettale che, come detto in quell’occasione, richiama una specifica pratica devozionale legata al culto della Beata Vergine del Carmelo e, più precisamente, il cosiddetto Privilegio Sabatino.
 Ad esso il canto fa riferimento soprattutto nelle strofe introduttive (1).
 Ma un altro aspetto, non meno interessante, al quale la volta scorsa avevo soltanto accennato, è quello che riguarda l’inquadramento storico dell’opera e dei suoi contenuti.
 Il canto, presente in vari centri dell’antica provincia idruntina (e del quale ho, appunto, raccolto la versione manduriana), sembra ispirarsi, per la verità in maniera molto libera, ad un fatto realmente accaduto nella Napoli del XVII secolo (2).
 Il riferimento è alla tormentata storia d’amore tra la figlia di un apprezzato pittore dell’epoca, Giuseppe de Ribera, noto anche come lo Spagnoletto per le sue origini ispaniche e per la bassa statura fisica (3), ed il futuro Viceré Don Giovanni d’Austria (figlio naturale di Filippo IV di Spagna ed omonimo del vincitore di Lepanto).
 Costui, appena diciottenne, era stato inviato a Napoli nel 1648, al comando di un’armata, per reprimere i tumulti seguiti alla rivolta di Masaniello e per riportare l’ordine nella capitale. In seguito vi era rimasto fino a quando era stato nominato Viceré di Sicilia (4).
 Una volta giunto in città, secondo cronisti dell’epoca, Don Giovanni aveva conosciuto la bellissima figlia del pittore de Ribera, Maria Rosa (la maggiore delle due femmine, la minore pare che si chiamasse Annica), e rimastone colpito, aveva con questa istaurato una relazione amorosa nel corso della quale la fanciulla, sedotta ed illusa con lusinghe e con ricchi regali, era stata condotta nel palazzo vicereale, contro la volontà del padre, per abitarvi con l’amante. Successivamente, caduta in disgrazia ed abbandonata da quest’ultimo, era stata rinchiusa in un monastero a Palermo.
 In tal modo era stata seguita una consuetudine (quella del ricovero, più o meno volontario, in un monastero) già familiare a Don Giovanni, dato che anche sua madre, l’attrice Maria Calderòn, era stata rinchiusa in un convento da Re Filippo IV di Spagna, padre naturale del futuro Viceré.
 Il padre di Maria Rosa, Giuseppe de Ribera (sempre secondo i biografi suoi contemporanei), per il dolore provocato dalle umiliazioni subite dalla figlia, era quasi impazzito e, partito da Napoli per Gallipoli (città nella quale aveva dei parenti), era misteriosamente scomparso senza dare più sue notizie.
 In realtà la fine del celebre pittore è stata un tantino romanzata dai suoi biografi.
 Egli, al contrario, è morto a Napoli nel 1652 ed è stato sepolto (come risulterebbe dal certificato di morte rinvenuto) nella chiesa di S.Maria del Parto a Mergellina. Senonché, a seguito dei restauri subiti dalla chiesa, attualmente non è rimasta traccia dei suoi resti mortali (5).
 La bella Maria Rosa, a sua volta, aveva dato, forse, alla luce un figlio nato dalla relazione con Don Giovanni.
 Dopo, era rientrata a Napoli lasciando, alla morte, tutti i suoi averi al fratello Antonio de Ribera, il quale, sfruttando a suo favore la relazione della sorella con il Viceré, sarebbe stato nominato Regio Uditore Provinciale in Terra d’Otranto (secondo alcuni addirittura Preside, ossia governatore della provincia).
 E’ probabile, quindi, che proprio l’arrivo nel Salento di Antonio de Ribera, per prendere possesso dell’ufficio di Regio Uditore, abbia favorito la conoscenza di questa storia nelle nostre contrade ed abbia stimolato la fantasia e l’estro dei cantastorie locali.
 Costoro, rielaborando liberamente la vicenda, ne avranno ricavato la canzone che, rappresentata nelle piazze in occasione della festa della Madonna del Carmine (16 Luglio), verrà poi diffusa in tutta l’area.
 Ovviamente, si tratta pur sempre delle ipotesi e delle congetture di alcuni studiosi locali, le quali non hanno il supporto di prove concrete. Tuttavia i collegamenti e le analogie tra il fatto di cronaca seicentetesca ed il nostro canto sono veramente tante.
 Del resto va detto che la vicenda amorosa ha goduto ancora di notorietà fino a tutto il 1800, venendo a formare l’oggetto di un romanzo intitolato “La figlia dello Spagnoletto racconto di don Francesco Pallavicino di Proto, Duca dell’Albaneto”, pubblicato a Firenze da Felice Le Monnier nel 1855.
 
 La versione mandurina del canto, a differenza delle altre rinvenute in altre zone del Salento (6), si contraddistingue, però, per una maggiore fedeltà alla vicenda di cronaca appena descritta.
 Innanzitutto, nella versione nostrana è ben preciso il riferimento al Viceré, mentre in molte altre il secondo protagonista della storia (lo sposo della figlia del pittore) è denominato Luigi Re (secondo alcuni si tratterebbe di una forma dialettale corrotta, derivante dalla trasformazione delle parole lu vigge Re”,proprie di taluni dialetti, che diventerebbero “Luigi Re”).
 Per quanto riguarda il richiamo alla guerra contro i Turchi, presente soltanto nella versione di Manduria, osando un poco, sarei indotto a pensare e ad ipotizzare che essa sia frutto di una confusione, in cui potrebbe essere incorso l’autore, tra il Don Giovanni d’Austria protagonista del fatto di cronaca e l’omonimo comandante della flotta cristiana, che il 7 Ottobre 1571 sconfisse i Turchi nelle acque di Lepanto.
 Inoltre, occorre rilevare che nel canto mandurino anche la figlia del pittore è accreditata come dilettante pittrice (“sapia ti pinnellu maniggiari”).
 Da segnalare ancora, come curiosa combinazione, che Manduria si pregia di custodire una bellissima tela di Giovan Battista Azzolino (o Bernardino il Siciliano), suocero dello Spagnoletto e nonno materno della protagonista della storia, Maria Rosa.
 E’ la tela, restaurata da qualche anno, raffigurante la Madonna con i Santi Francesco, Carlo Borromeo ed altri, che si trova nella Chiesa di S.Francesco dei Frati Minori (attualmente, alla destra di chi entra, nell’ultima arcata prima del presbiterio).
 Infine, meritano attenzione per la delicatezza con cui illustrano il sentimento di trepidante attesa della protagonista della storia, condotta in carrozza dai “bravi” del Viceré alla volta della masseria di “Petrabianca”, i versi (esclusivi della nostra versione) “lunga è la strada e corta la via”, mutuati dalla frase che tradizionalmente chiude i racconti fiabeschi: “Larga è la foglia e stretta è la via, dite la vostra che io ho detto la mia” (nella quale ultima, per un probabile errore di interpretazione del testo originario, foglia dovrebbe stare per soglia).
 
 Le ulteriori notizie acquisite, inoltre, hanno confermato l’ipotesi inizialmente formulata sull’origine del canto.
 Infatti, come ho già detto nel precedente contributo, dovrebbe trattarsi di un componimento realizzato per l’uso dei cantastorie, da eseguire nelle piazze dei paesi in occasione della festa della Madonna del Carmine.
 Il testo di dette storie, probabilmente veniva diffuso con un foglietto a stampa, distribuito al pubblico subito dopo l’esecuzione del canto e, in tal modo, è stato possibile tramandarlo, di generazione in generazione, nella tradizione orale.
 Orbene, la conferma di tutto ciò rinviene dal fatto che in alcune lezioni del componimento (Statte, Massafra-Leucaspide), compaiono dei versi finali in cui è riportato il nome di uno di questi poeti ambulanti ed il costo del foglietto a stampa in cui il canto era raccolto. Nella versione di Statte i versi sono i seguenti:
“Vulé sapì a ci à cunfermé la storie?
Gnazie de Tarde e cittadine d’Orie.
A ci no sèpe la storie che catte la ‘mbrése
ca no la pèje chiù de nu tornése”
 Il cantastorie, quindi, si “firma” alla fine del canto: è Ignazio di Taranto, abitante a Oria ed attivo, a quanto pare, tra la fine del secolo XVII e gli inizi del XVIII. Il suo nome chiude anche altri canti a tema religioso, tra cui uno dedicato a S.Giorgio raccolto nell’omonimo centro del tarantino.  
 Credo, però, che non sia possibile stabilire con certezza se egli sia l’autore del componimento originario o, più semplicemente, di un arrangiamento che potrebbe aver messo in scena, girando per i vari paesi del Salento.
 Molto chiaro è, invece, il riferimento al foglietto a stampa (“la ‘mbrèse”: l’impresa), messo in vendita dall’artista di strada dopo la sua esibizione al prezzo di un tornese napoletano (7).
 Concludendo ritengo, invece, che restino problematici e non chiariti i collegamenti tra la storia della figlia dello Spagnoletto (sempreché ad essa, realmente, si ispiri il canto religioso) e la devozione per la Madonna del Carmine, a cui viene attribuito l’intervento miracoloso a favore della protagonista.
 Secondo alcuni, ma la tesi non convince del tutto, l’autore potrebbe essere stato motivato dalla forte ripresa che le pratiche di culto ebbero a partire dal 1600 in tutto il Regno napoletano, compresa la nostra penisola salentina, e dal fatto che i tumulti, che causarono l’arrivo nella capitale del Viceré Don Giovanni d’Austria, ebbero inizio nel periodo dei festeggiamenti in onore della Vergine del Carmine e culminarono con l’uccisione di Masaniello proprio nel giorno della festa (16 Luglio) e nella chiesa a Lei dedicata (8).
 Per i lettori più pigri, che non volessero prendersi la briga di ricercare il mio precedente contributo pubblicato da Manduria Oggi, ritrascrivo la versione mandurina dell’antico canto: il piacere della sua rilettura non costerà nulla, neppure un tornese!
 
Giuseppe Pio Capogrosso
 
 
LA CANZONI TI LA MATONNA TI LU CARMUNU
(recitata dalla sig.ra Modeo Filomena ved. Mandurino, classe 1912, e trascritta dall’avv. Giuseppe Pio Capogrosso   nell'anno 1986)
 
Ti sciroccu a lianti a tramuntana
tutti 'sti jenti li ulìa copriri
a mmienzu 'nc'é Maria Carminitana
quedda ca sarva e juta ogni cristiana.
 
Lu sabbutu e lu merculitia no' lu 'ncammarati
setti avemarii, setti paternostri e setti gloriapatri ha ricitari,
ci nui cun veru cori li ticimu
fumu ti Purgatoriu non n'itimu
a ci pi sorta an Purgatoriu sciamu
sabbutu eni Maria e ni caccia fora.
 
La fijia ti nu miseru pittori
sapia ti pinnellu maneggiari
suo patri pi lu troppu amori
lu scia cuntannu a tutti li signori.
 
Lu Vicirei l'ebbi già saputu
subbitamenti si lu mannou a chiamari
quannu é 'rriatu a palazzu riali
li faci la scappellata e la riverenza:
"Ce mi cumanni sacra eccellenza?"
"Oh no ti 'mpaurari ti nudda cosa
ca ju la tua fijia la oju pi sposa."
"La mia fijia no ti la pozzu tari
ca é fijia ti nu miseru pittori
ca ju pi lu troppu amori
lu scia cuntannu a tutti li signori."
"Ci no stasera nsinu a crammatina
la tua fijia dienterà regina,
cu sangu povertà, sangu riali!"
 
Quannu scera pi pijà la sposa
li Turchi sparaunu alla Turchia
lu Vicirei ebbi 'na chiamata
ti unu putinzanu assai ti iddu.
Ddo li siluri si ni volli andari:
"Ca la cunsorti no m'abbandonati!"
"Oh abbanni frati mia, abbanni scuscitatu,
ca mò jé ccappata a manu alli caniati!"
 
Eni lu sabbutu e si llava la testa,
si llea lu diamanti ti li mani
e lu ccommi sobbra alla buffetta.
Una ti li caniati si ni ddunou
subbutu 'na icchiaredda sci chiamou:
"No sai vicchiarella mia, no sai ce ha fari?
A quddu cran signori l'ha sciù dunari,
lu baggiamanu e la testa all'incrini,
tu tilli ca lu manna la reginella."
 
Lu Vicirei stava ca inia
cu lunghe scorte e cu cavalleria,
li siluri lu ozzira assiri a 'nanti
comu to patri missionanti:
"Oh frati, oh frati ti ce t'ha fatta la curona
e ti ce manera ti l'ha fatta fari,
ca lu diamanti tua ti li mani
l'é sci dunatu a 'n'otru cran signori
e cinque pi li mani otri ni teni!"
 
Lu Vicirei non bozzi sentiri a questo:
"Mi chiamati li quattru cchiù fitati ca tegnu,
mi armati la mia carrozza
e la purtati alla mia massaria.
Quannu a Petrabianca l'arriati
lu baggiamanu e la scittati a mari!"
 
Edda scia ticennu per la via:
"Lunga é la strada e corta é la via,
ddò ma t'ha purtari calissieri mia?"
"Ta m'ha purtari alla massaria
cussì cumanna vostro marito."
"Lunga é la strada e corta la via,
ddò ma t'ha purtari calissieri mia?"
"Ta m'ha purtari alla massaria
cussì cumanna vostro marito."
 
Quannu a Petrabianca l'arriara
li baggiara la manu e la scittara a mari.
Edda tre paroli ozzi furmari:
"Matonna ti lu Carmunu tu m'ha jutari,
ca é tantu tiempu ca ti portu a 'mpiettu
e non so degna ti 'sta morti fari!"
 
E l’abitinu ci sobbra purtava
si faci a barca e zzicca a navigari,
a 'nanzi li cumpari 'na piccola barchetta:
edda critiu ca erunu veri marinari,
inveci erunu ancili mannati ti Diu.
"Ddò ma t'ha purtari marinari mia?"
"Nui simu ancili mannati ti Diu,
ta m'ha purtari an cielu cu nui,
cussì cumanna la Matri Maria."
 
Quannu sobbra cielu l'arriara,
ti mietucu eccellenti la istera:
'ntra Napuli é calata 'na fiamma,
é calatu 'nu mietucu forestieru.
 
Lu Vicirei stava ca muria,
subbitamenti l'é mannata a chiamari,
li ttanta prima lu puzu e puei lu cori,
subbitamenti lu faci parlari.
Lu Vicirei, quannu si eddi buenu ti saluti,
no' sapia ce rigalu l'era a fari:
"Quale città, quale cosa,
tuttu cuddu ca uliti bi pijati!"
Edda risposi:
"No' boju ne premiu, né città,
sott'a tenenti ti Rei tu mi minti!
Lu primu ca n'ha assiri é lu pittori!"
"'Na fijia ibbi e no l'ha putii airi,
la tiessi pi mujieri a 'nu cra signori,
spusata l'ibbi e seppellita noni!"
"Mi fazzu 'na cranni meraviglia,
lu patri cu non canosci cchiui la sua fijia!
Mi sci chiamati li toi sorelli quani,
cussi finisci la mia vita!"
Li siluri risposira:
"No' ni la critiumu ca iniumu a questu!"
Alli toi siluri fuei la testa truncata,
alla ecchia li fuei fatta la stampata:
misa 'ntra la otti e minata a mari.
 
Maria lu teni scrittu allu suo velu:
ci faci beni an terra, uadagni an cielu,
Maria lu teni scrittu allu suo visu:
ci faci beni an terra uadagni an Paraisu!
 
 
Note all’articolo:
 
(1) Il Privilegio Sabatino, è una promessa che la Madonna fece in una Sua apparizione, ai primi del 1300, al Pontefice Giovanni XXII, al quale, la Vergine comandò di confermare in terra, il Privilegio ottenuto da Lei in Cielo, dal Suo diletto Figlio. Questo grande Privilegio, offre ai fedeli che indossino in modo permanente l’abitino o scapolare della Madonna del Carmine, che osservino l’astinenza dalle carni (digiuno) nei giorni di Mercoledì e Sabato dedicati alla Vergine, e che recitino quotidianamente sette pater, sette ave e sette gloria, la possibilità di entrare in Paradiso, il primo sabato dopo la morte (ciò vuol dire che, secondo la promessa fatta, coloro che ottengono questo privilegio, stanno in Purgatorio, massimo una settimana, e se hanno la fortuna di morire di sabato, la Madonna li porta subito in Paradiso).

 

(2) La notizia dell’accostamento con il fatto di cronaca del ‘600 è stata data per la prima volta da Ettore Vernole in “Un canto gallipolino su Giuseppe Ribera. Lo Spagnoletto.”, Estr. da: Archivio storico pugliese, 1966,n. 1-4.. Fonte: emeroteca.provincia.brindisi.it. E’ stata poi ripresa da altri autori tra cui Marinò Angelo – Scaligina Cosimo, Statte, alle tiémbe de tataranne: poesia popolare, tradizioni, racconti e vita di un tempo., Ediz.Pugliesi, Martina F. 2007. Fonte: internetculturale.it

 

(3) JUSEPE DE RIBERA JÀTIVA, VALENCIA 1591 - NAPOLI 1652. PITTORE
Noto anche come “lo Spagnoletto”, per la sua bassa statura, è considerato uno dei maggiori esponenti della scuola partenopea della prima metà del ‘600. Formatosi inizialmente in Spagna, presso il pittore Francisco Ribalta, giunse in Italia nel 1611 soggiornando nel nord della penisola (Cremona, Milano e Parma) e, approdando a Roma nel 1613. Successivamente si stabilì a Napoli (1616), alloggiando presso la casa dell’anziano pittore Giovan Battista Azzolino (detto anche Bernardino il Siciliano, amico dell’altro pittore di scuola napoletana Fabrizio Santafede), del quale sposò la figlia sedicenne. In poco tempo divenne il pittore di spicco della scuola napoletana. Partito da una adesione al realismo caravaggesco, col tempo si arricchì di un vivace cromatismo ispirato alla scuola neoveneta. Tra i suoi capolavori si segnalano il Sileno ebbro (1626), appartenuto al mercante fiammingo Gaspar Roomer e l’Apollo e Marsia (1637), proveniente dalla collezione del principe di Montesarchio Andrea d’Avalos, entrambi conservati nelle collezioni del Museo di Capodimonte, il Martirio di san Bartolomeo della Galleria Palatina di Firenze (1628-30), il Martirio di san Filippo (1630) e il Tizio (1632) del Museo Del Prado.
Come già anticipato, a Manduria si trova la bellissima tela di Giovan Battista Azzolino, suocero dello Spagnoletto e avo materno della protagonista della storia, Maria Rosa. E’ la tela, recentemente restaurata, che riproduce la Madonna con i santi Francesco, Carlo Borromeo ed altri, che si trova nella Chiesa di S.Francesco dei Frati Minori.
Nella Chiesa di S.Antonio, già dei Frati Minori Cappuccini, si trova la nota pala d’altare dell’altro pittore di scuola napoletana, amico dell’Azzolino, Fabrizio Santafede. La tela riproduce la Madonna del Suffragio con i Santi Francesco, Antonio ed il committente.

 

(4) Don Juan José de Austria italianizzato in Don Giovanni d’Austria (Madrid, 7 aprile 1629 – Madrid 16 settembre 1679), è stato un condottiero e politico spagnolo. Figlio illegittimo di Filippo IV di Spagna, sua madre era María Calderón, una famosa attrice, che si ritirò in un convento dopo la sua nascita. Crebbe a León presso una donna di condizioni modeste che probabilmente ignorava il lignaggio del pupillo per quanto questi ricevette la migliore educazione a Ocaña nei pressi di Toledo. Nel 1642, il re lo riconobbe ufficialmente come suo figlio ed il principe iniziò la sua carriera politica in qualità di rappresentante militare degli interessi del padre. Infatti, Don Giovanni fu inviato nel 1647 a Napoli con una squadra navale e un corpo di spedizione per reprimere la Repubblica Napoletana costituitasi a seguito dell'insurrezione di Masaniello: in un primo momento si limitò ad assediare la città e ad infiltrare agenti, aspettando che il sostegno popolare verso i governanti filo francesi, poi, ottenuta la cacciata dei promotori della rivolta, entrò nella città restaurando il viceregno. L'anno seguente, esauriti i focolai di rivolta, Don Giovanni fu inviato in Sicilia come viceré da cui partì, nel 1651, per guidare un corpo di spedizione in Catalogna allo scopo di riconquistare Barcellona, l'unica città importante della Catalogna ad essere rimasta fedele alla Sollevazione del 1640. Dopo un lungo assedio, nell'ottobre del 1652, la città si arrese e don Giovanni poté adottare una saggia politica di pacificazione per la quale fu a lungo ricordato. In entrambe le occasioni fu aiutato anche dalle proprie qualità umane: la simpatia, la personalità brillante, anche l'aspetto fisico, gli occhi luminosi ed i capelli corvini, contribuirono a fare del principe una figura apprezzata dalla popolazione.
Nel 1656, Filippo IV, gli conferì il titolo di governatore dei Paesi Bassi spagnoli e di comandante dell'Armata dell'Armata delle Fiandre, dove ottenne alcuni allori militari come la vittoria nella Battaglia di Valenciennes dove il suo esercito, numericamente inferiore, colse di sorpresa l'armata francese dI Duca di Turenne; in questo scontro si distinse anche per doti di coraggio personale dato che guidò personalmente la cavalleria spagnola. Fonte: Wikipedia l’enciclopedia libera.

 (5) Cfr sul Corriere del Mezzogiorno del 28.9.2011 l’articolo di Alessandro Chetta “Dov'è finito il corpo dello Spagnoletto? Ribera è sepolto nella chiesa di Santa Maria del Parto, ma della tomba dell'artista non c'è più traccia.”

(6) Surbo, Castro, Gallipoli, Statte, Massafra, Grottaglie. Lizzanello, Laterza, Castellaneta, Fasano, Maritna Franca, Francavilla Fontana e, ora, Manduria.

 (7) Cfr. per la notizia e per la lezione stattese del canto: Marinò Angelo – Scaligina Cosimo, op.citata.









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