venerdì 26 aprile 2024

27/03/2009 20:19:51 - Manduria - Appuntamenti

Si intitola Štiddi. Sarà presentato presso il Museo del Primitivo di Manduria

 
 
Si intitola Štiddi (gocce) l’ultima silloge in dialetto mandurino di Cosimo Greco, edita da Giuseppe Laterza, con prefazione di Donato Valli. L’opera che recensiamo sarà presentata domani (sabato), alle ore 18,30, presso il Museo del Primitivo di Manduria dal prof. Luigi Marseglia, docente di Storia della Critica Letteraria Italiana presso l’Università di Bari. Interverranno Gino Pisanò, saggista e critico letterario, il preside Vittorio Basile e l’editore Laterza di Bari. Coordinerà i lavori Rosario Jurlaro della Società di Storia Patria per la Puglia.
Anche di quest’opera, ultima creatura della sua ampia produzione letteraria, il poeta non è neofita. Greco abbraccia la cultura, la civiltà, la lingua dei padri, ne ridà il suo fascino antico.
Delle opere del poeta di Manduria si sono occupati autorevoli critici come Marti, Mercogliano, Colombo, Dell’Aquila, Bevilacqua, Valli, Parisi, Pisanò.
A proposito di Štiddi, che vuol dire “gocce” di sudore, di rugiada, di lacrime, di sangue, di memorie, di sentimenti, etc., scrive Donato Valli:
[...] Questo libro è documento significativo in quanto rimarca, dal punto di vista linguistico, l’estrazione contadina del parlato, facendo leva sulla originalità tutta volgare dei lemmi, quasi riesumati dal loro sonno secolare, ma elevati in pari tempo ad emblemi di una memoria resa limpida dalla originalità e dalla pregnanza dei contenuti. [...]
La parola di Greco è un lessema fonetico e morfologico, essenziale come un lampeggiamento. Si badi, non si tratta di semplice evocazione, ma ogni verso filtra con nostalgia ed incantesimo dal cuore che sa rivivere la stagione dei padri, ma anche di tutti quei personaggi popolari e comuni, che hanno scandito la storia del paese e che si levano come plinti nei versi del poeta: lu massaracchju, lu cŭlummaru, lu capusotta, lu facciommini, lu scijoni, lu carrucchjaru, lu mpirniculoni.
Questo solitario cantore mandurino rievoca un menestrello d’antichi tempi, un cantastorie evocatore di memorie seppellite, di voci lontane ed echeggianti nel calore della memoria e della coscienza. Ed è per questa ragione che non ricorre come mezzo linguistico al nostro classicismo o alla parola aulica. Il dialetto diventa la lingua dei padri e il profumo della parola si spande invasivo e contagioso. La stessa forma epigrammatica, essenziale, ha anche un valore parenetico ed una nuova parusia. Si notano anche figure retoriche come l’ossimoro, l’ipallage, l’episegesi, la sinestesia, non con il peso accademico della retorica classica, ma sobbalzi vivi e vegeti di un’anima zampillante e fresca, come aurorale è la genesi della parola stessa. Sono balenii dello spirito che nulla concedono al discorso facile della prosa. Scavano nell’inesprimibile e nel profondo “io” freudiano, cogliendo le radici, il suono, la sostanza primigenia del significato: Lu ècchju rrunciddatu / ngroffula / nnu paternoštru / sobbra lu limmitari / nfrizzula la pitrara li fili ti lu soli / taja la serpi / l’ardori ti murteddi / e spinaruti / Pari / nnu ggiurnu t’otri tiempi / La bon’anima / spila quazetti alla cummari / Lu Štrazzuddu sacrištanu / štuta lampi ti ueju / pi campari / jabbita la fami / la scanzia / [...] (Traduzione: Il vecchio curvo / russa / un paternostro / sulla soglia / spiegazza la pietraia / i fili del sole / taglia la serpe / l’odore di mirtilli e ginestroni / sembra un giorno d’altri tempi / La buon’anima disfa calze alla comare / Štrazzuddu il sacrestano / spegne lampe d’olio / per campare / abita la fame / la scansia / [...]).
Rivive la parola nel suo DNA come impeto istintivo del contado, attorno al borgo, al vecchio paese medievale, tutto raccolto nella monade unitaria ed impenetrabile, nella roccaforte del nido familiare fatto di fatica dei campi, sudore, giornate di attese e, spesso, sempre uguali.
Gli anziani ed i vecchi potranno capire e leggere queste pagine col richiamo al passato vissuto; i giovani attingeranno un microcosmo sconosciuto, un linguaggio dei padri sotto cui si nasconde tutta la fatica, il sudore per tirare avanti la carretta della vita. Niente di metafisica e d’avanguardia, niente di stravaganze linguistiche. Questo genere di poesia scava nei penetrali dell’animo umano, nelle scaturigini lontane della nostra interiorità palpabile e viva, sicché la vita stessa nasce e si solidifica nella parola come una sorta di palingenesi ed epifania del vero: L’è mminatu / lu Patriternu / all’angulu / ti lu Caštieddu / puirieddu [...] (Traduzione: L’ha gettato / il Padreterno / all’angolo / del Castello / poveretto [...]. Cosimo Greco, ibidem, Lu calli, Lo scemo, pag. 107).
La fotografia del poeta resta invisibile, ma carica di pathos. Non interessa oleograficamente il paesaggio, ma il rapporto dell’uomo con l’ambiente che, spesso, è ostile per cui il Nostro veste gli abiti del popolano e sta accanto a lui. Lo osserva, lo scruta, così il filtro passa ad un forte appercettivo; sensazioni che ridestano in noi trasalimenti ed emozioni. Ogni pietra, ogni angolo di strada, ogni ombra, ognuno che appare sconosciuto, gravato dalla pena di vivere, viene catapultato nella coscienza del poeta e rivissuto. La silloge di liriche aggiunge il suo contributo alla letteratura meridionale, alla poesia, alla narrativa, al romanzo.
Il volume non si può leggere al sole sulla spiaggia, ma nel chiuso della propria stanza, perché sa ridestare calore e colori, sinfonie remote custodite nella memoria. Rivive in tutta la sua vis la “mandurianità”, non municipalistica, ma archetipo di ogni tempo e stagione.
 
Giovanni Parisi








img
Cucina d'asporto e Catering
con Consegna a domicilio

Prenota Ora