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25/10/2021 15:07:56 - Manduria - Cultura

A Manduria, a differenza di altri paesi della provincia, dove all’epoca era diffusa la coltivazione del cotone, si coltivava anche il lino: se ne parla in diversi volumi

Il ‘cautisciatoio’ questo sconosciuto! Certamente esso non lo era per gli abitanti di Casalnuovo del Settecento che si occupavano della lavorazione del lino. Qui, infatti, a differenza di altri paesi della provincia, dove all’epoca era diffusa la coltivazione del cotone, si coltivava anche il lino e, come si evince dal Catasto Onciario di Casalnuovo del 1756, sul ‘cautisciatoio’ gravava un diritto feudale, uno ‘ius’ esercitato per metà dal Principe Imperiali mentre l’altra metà faceva parte dei diritti dell’Abate Commendatario di S. Maria di Bagnolo.

Il ciclo di lavorazione del lino si presentava in passato lungo e complesso: il raccolto (dopo la fioritura, il fusto veniva estirpato in modo che la pianta potesse essere utilizzata in tutta la sua lunghezza); la sgranatura (le capsule venivano separate dagli steli); la macerazione (ossia la decomposizione della parte più esterna del fusto); l’essiccamento (dopo la macerazione i covoni venivano asciugati ed essiccati); la gramolatura (l’involucro esterno del fusto, attraverso la gramola, veniva frantumato per liberare le fibre dalle parti legnose che le rivestivano); la stigliatura (durante la quale la filaccia veniva liberata per battitura da ogni residuo legnoso attraverso uno strumento chiamato ‘scotola’), la pettinatura (il lino sfibrato veniva passato più volte in vari tipi di pettine per separare le fibre lunghe da quelle corte e spezzate); infine la filatura e la tessitura.

Operazioni lunghe e complesse dunque, tanto da essere fissate in alcuni modi di dire popolari: ‘suffrìre le pene de lu lino’ a indicare le tante traversie subite da qualcuno prima di raggiungere la meta; ‘còtula, còtula. Linu mia, ca mo’ è tiémpu ti cutulàri’ = ‘scuoti, scuoti, lino mio, che ora è tempo di scuotere’, riferito al presentarsi di una situazione favorevole.

Fra le varie fasi descritte, quella di nostro interesse è la macerazione (cura) dei fusti di lino che, raccolti in mazzi, venivano immersi in una vasca in muratura riempita d’acqua realizzata presso la sorgente del fiume Borraco: il ‘cautisciatoio’ appunto o ‘curatoio’, divenuto nella forma dialettale ‘quatisciaturu’.In particolare, essendo il toponimo Borraco riferito a due distinte sorgenti, distanti tra loro circa duecento metri, il curatoio insisteva in quella orientale, chiamata per l’appunto ‘Quatisciaturu’ (l’altra era chiamata ‘Tamburo’).

Il termine dialettale ‘quatisciaturu’ è derivato dal verbo ‘quatisciare’, riportato dal Rholfs come «gualcare [=battere e pressare]la lana coi piedi nell’acqua del mare»; tale accezione ci ricorda che in tempi successivi (finanche alla prima metà del XX secolo), la ‘struttura’ veniva utilizzata anche per il lavaggio della lana.Il termine ‘cautisciatoio’ deriva da ‘catisciare’, calpestare, pestare [lat. volg. *catidiare, dal greco ϰαϑɩζω ‘io metto sotto’] e fa riferimento verosimilmente all’uso di porre una pietra sopra i fusti in macerazione per impedire che risalissero in superficie nel curatoio.

Anticamente la macerazione avveniva prevalentemente ad acqua stagnante o ad acqua corrente. Nel primo caso il processo fermentativo era sicuramente accelerato, ed essendo in passato la sorgente del fiume Borraco al centro di una vasta plaga paludosa (bonificata all’inizio del 1900), questa ben si confaceva, per le sue caratteristiche, ad ospitare il ‘cautisciatoio’. Nondimeno, la natura stagnante delle acque comportava esalazioni nocive che rendevano insalubre il territorio circostante, contribuendo alla diffusione di malattie quali la malaria.  Per questo già nei primi anni dell’Ottocento (complice l’avanzare della diffusione del cotone) il ‘cautisciatoio’ fu dismesso.

Negli stessi anni in cui a Borraco il ‘cautisciatoio’ veniva dismesso per ragioni di salute pubblica, è attestata la volontà di erigerne un altro presso la sorgente del fiume Chidro di San Pietro in Bevagna, ma la forte opposizione dei cittadini ne decretò il fallimento. In una memoria indirizzata al vescovo di Oria Mons. Fabrizio Cimino, datata verosimilmente tra il 1807 e il 1808, vi è la richiesta di intervenire presso il direttore del Demanio per impedirne la costruzione. Le motivazioni addotte riguardano in primo luogo la salubrità dell’aria, la quale «ivi era infetta già prima per le molte acque stagnanti diverrà per la macerazione del lino dell’intutto micidiale», impedendo ai fedeli la frequentazione del Santuario. In secondo luogo l’eventuale costruzione sarebbe sentita dai devoti come profanazione di quel luogo. «Infatti la principal divozione consiste nel tuffarsi in quell’acque e nel farvi tuffare anche gli animali infermi. E come ciò eccita la loro fiducia, così si è sempre piamente creduto che con tal mezzo i divoti hanno ottenuta la guarigione loro e de’ loro animali».

La presenza di ‘curatoi’ è attestata anche nei paesi circostanti, all’interno di masserie ad esempio: «nel 1565 è attestata la presenza di un “curatoio” presso la masseria Projani in territorio di Brindisi. Una controversia del 1597 si conclude con la scomunica del proprietario della masseria Giancola di Brindisi per presunta appropriazione indebita, ai danni del Capitolo, di “fiumicelli, li curaturi, giunghi e cipierno”. La masseria Li Ronzi (…) in territorio di Lecce, comprendeva nel 1700 “padula per curar lino (…)”».

Nel territorio tarantino è attestato il pagamento (fra il 1665 e il 1689) di 9 ducati annui per il ‘curatore’ del lino situato nel giardino dei Carmelitani alle Fontane; come anche l’obbligo, per usufruire del permesso di passare con i carri pieni di lino attraverso le terre della masseria Battaglia, della cura gratuita del loro lino, pena il pagamento di 5 ducati annui. La mancata ottemperanza di questa stessa servitù portò altri locatari a una querela «a seguito della quale i fittuari vennero ‘carcerati’, essendo inoltre condannati a ‘curare’ per quell’anno gratis suo lino [della masseria]. Questi pagarono poi i ‘diritti di carcerazione’, per poter tornare subito al lavoro, ‘tenendo il lino dentro l’acqua del curatore che si perdeva’». Essere addetto alla ‘cura’ del lino era un’occupazione redditizia, considerato che nel 1613 la tariffa per ‘curare’ una ‘sarcina’ (o mazzo) era di 9 grana. Nondimeno, a volte sorgevano controversie per la mancata pulizia periodica delle vasche dei curatori. È attestato, ad esempio che nel 1728 il nuovo locatore di Masseria Palombella, avendo trovato il ‘curatore’ del lino ‘affogato’, preventivò una spesa di ben 30 ducati per ‘annettarlo’.

Per quanto su esposto cfr. Antonio Pasanisi, ‘Civiltà del Settecento a Manduria, Economia e società’; Antonio Vincenzo Greco, ‘Uomini e paludi nel tarantino del Settecento’ in ‘Liber amicorum’, a cura di Giovangualberto Carducci, ‘Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle vosi dialettali in uso e di tradizione’ di D. Nardone, N. Ditonno, S. Lamusta; Rosario Giuseppe Coco, ‘Manduria, tra Taranto e Capo d’Otranto. Etimo, mito e storia del territorio’; per le informazioni etimologiche Gerhard Rholfs, ‘Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto)’; per le fasi di lavorazione https://www.slideshare.net/segreterialeno/il-lino. Tutte le opere citate sono disponibili in biblioteca.

In foto: la zona del ‘cautisciatoio’ in contrada Marchese, nei pressi della sorgente del fiume Borraco, qualche anno fa (foto di D. Nardone); pianta del lino in fiore e covoni essiccati (fonte Pinterest).









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