- mercoledì 24 dicembre 2025
La festività cristiana più sentita dell’anno conserva, seppur all’interno di un tempo oramai non più naturale perché addomesticato alle esigenze della società complessa, elementi residuali di varia natura

«Il Natale è la festa che più commuove e consola il popolo» scriveva Giuseppe Gigli in “Superstizioni pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto”, riferendosi al popolo mandurino del secolo scorso. Alla carica affettiva di questa affermazione fa seguito la considerazione che nella ritualità del Natale cristiano sono presenti alcuni importanti elementi appartenenti all’orizzonte tradizionale del nostro recente passato.
Fino alla metà del Novecento, infatti, il tempo del Natale era modulato su una ritualità complessa, cui si conformava il mondo contadino: tempo naturale, scandito dai ritmi ciclici e ripetitivi delle stagioni; tempo magico, popolato da credenze ataviche di natura agreste e residui cultuali precristiani; tempo liturgico, animato da una fede sì autentica, ma anche funzionale alla precarietà di tante esistenze.
Accade così che la festività cristiana più sentita dell’anno conservi, seppur all’interno di un tempo oramai non più naturale perché addomesticato alle esigenze della società complessa, elementi residuali di varia natura.
In primo luogo, il periodo dell’anno in cui si celebra il Natale rappresenta il passaggio dal solstizio d’inverno, con la sua notte più lunga e fredda dell’anno, al periodo in cui il sole comincia nuovamente ad avere forza e vigore, prendendo il sopravvento sull’oscurità. Questo concetto di rinascita legata al solstizio, intesa come rigenerazione fisica della Natura e come vittoria della luce sulle tenebre, tradisce le lontane radici pagane del nostro Natale (i “Saturnali”, 17-23 dicembre; il culto del “Sol Invictus”, 25 dicembre), le quali sono state progressivamente storicizzate all’interno della tradizione cristiana, da quando nel 376 la Chiesa fissò al 25 dicembre la rievocazione storica della nascita di Gesù.
Molte manifestazioni rituali legate alla Vigilia di Natale sono espressione di un sincretismo culturale in cui trovano posto azioni di tipo purificatorio (digiuno), propiziatorio (fuochi rituali), apotropaico (conservazione della cenere dei falò). L’accensione dei falò della Vigilia nelle strade o del ceppo nel camino di casa, ad esempio, trova la sua ragion d’essere nel rituale agreste del sacrificio, con la liberazione dello spirito silvestre garante della fertilità. L’ancestrale richiamo all’evento solstiziale porta con sé il concetto del simile che produce il simile: nei giorni di minore vigore della luce e della forza del sole (solstizio), accendendo luci e fuochi rituali (le luci dei nostri alberi di Natale, fuochi rituali ‘stilizzati’) si combatte il terrore delle tenebre (per estensione della morte), dando vigore a ciò che più di tutto si teme di perdere, la luce (per estensione la vita).
E a Manduria? Come si viveva in passato il tempo speciale della Vigilia di Natale?
Carattere propiziatorio, ma anche purificatorio (bruciare le negatività) aveva, la sera del 24 dicembre, l’accensione agli angoli delle strade di un grande falò, “lu fanòi”. Questa operazione richiedeva l’impegno preliminare di adulti e bambini per ‘questuare’ sarmenti da utilizzare nel grande falò della Vigilia.
Era abitudine riunirsi attorno al fuoco, cantare e pregare inneggiando alla Madonna e al Bambino Gesù: «si mintìunu tutti turnu turnu e cantàunu ‘ninna nonna ninna nonna è parturita la Matonna’» (A.A., 66 anni); il freddo scompariva con il calore del falò e con qualche pettola calda, mentre si ballava e si cantava al ritmo di musica, prodotta, talvolta, da due coperchi di pentole fatti vibrare a mò di piatti musicali: «tannu to tampagni ti patelli, quiddi erunu li cosi ti settant’anni ottant’anni fa(…) tutti dda, lu fuecu ardìa e li crištiani štaumu, toppu ca era Natali ca facìa friscu, ma nc’era nu fuecu, nc’era l’ampa ca tava ntra casa (…) tutti dda ffori ca zzumpàunu, ballàunu, lu grammofunu ca sunava e lu piattu ti li pettuli sobbra a lla banca dda ffori, ca ogni tantu unu scia e si pijava na pèttula bella cauta cauta» (P.A., 87 anni)».
Il fuoco ardeva tutta la notte affinché idealmente il Bambino Gesù appena nato non soffrisse il freddo («ardìa totta la notti lu fuecu ti Natali, tici ca s’era scarfari lu Bambinu» (P.A. 87 anni) e, quando all’alba si spegneva se ne conservava la cenere, utilizzata per allontanare malattie, temporali o cattivi raccolti (dal rito propiziatorio si passava così a quello apotropaico). Essa veniva conservata in un pezzo di stoffa (pupieddu), custodito gelosamente per tutto l’anno sotto al cuscino o al materasso: «noni nui, li antenati, agnitunu si pijàva puru na paletta ti fuecu, pirceni era binidetta [e si facìa] lu pupieddu, lu ttaccaunu cussini (simula con le mani l’atto di avvolgere qualcosa in un pezzo di stoffa), era na binidizioni ca tinìunu, sa la mintìunu — ticìa nonnima — sotta a lli cuscènuri (…) o sotta a lli matarazzi, ca eri binidetta, na binidizioni» (B.O., 98 anni); «era comu na cenniri santa (P.A. 87 anni)». I residui del falò rimasti per strada venivano spazzati e sparsi nei campi: «ca eri binidetta ticìunu, la minàunu a lla vigna… no a nterra, no la facìunu lassari cu no passàunu cu lu traìnu» (B.O., 98 anni).
L’aspetto purificatorio caratterizzava altresì un altro momento rituale della Vigilia di Natale: il digiuno. Esso, praticato anche nelle società agrarie, si protraeva dal mattino fino al tramonto («‘Soli punutu, ddasciùnu furnutu’ [= sole tramontato, digiuno finito]), quando le donne della famiglia si riunivano per preparare nove diverse portate (li noi cosi ) da consumare poi durante il pasto della sera.
Nella notte della Vigilia, un trattamento speciale era riservato agli animali di casa.
I padroni avevano cura che quella notte gli animali avessero cibo in abbondanza, tale da rimanere sazi a lungo e perché no!, ci scappava anche un assaggio di pettole e purcidduzzi: «comu tradizioni ti la notti ti Natali, sirma li purtava [ai cavalli] li pettuli e li purcidduzzi ntra la mangiatora» (M.A., 90). Con lo stesso obiettivo, nelle masserie, si portavano le pecore a pascolare nei campi seminati a grano o a foraggere: «li pecuri li minàumu ntra li firràscini [campi coltivati a foraggere], ntra li crànuri, l’erumu siminati nticipati li crànuri, lu toppu manciari versu li ddui (…) e li lassàumu ddani to iori (…)perché era la vigilia ti Natali, l’animali se n’erunu sciri cu tanta ti panza» (P.A., 87).
La volontà dei contadini di condividere la gioia per la nascita del Santo Bambino estendendola agli animali denota l’importanza ad essi attribuita, veri e propri pilastri della famiglia, fonti di cibo e di lavoro. Tale pratica, tuttavia, rimandava ad un orizzonte magico, secondo il quale gli animali, proprio in quella notte prodigiosa, avevano facoltà di parlare e … sparlare pure, commentando i comportamenti tenuti dai padroni nei loro confronti durante tutto l’anno. Per evitare commistioni fra orizzonti di mondi differenti, era assolutamente vietato ascoltare ciò che dicevano, pena terribili sciagure.
Anna Stella Mancino
L’articolo “La Vigilia di Natale” è il risultato di una serie di interviste che ho effettuato negli anni scorsi, rivolte a fonti manduriane, delle quali riporto, in parentesi, le iniziali del nome e cognome e l’età anagrafica.
