mercoledì 16 ottobre 2024


14/03/2022 07:27:51 - Manduria - Cultura

I ceci di cui si parla nel volumetto di Giuseppe Pitré (scritto nel 1886) sono drammaticamente legati all’episodio dei Vespro Siciliano, attorno al quale ruotano tante di quelle tradizioni popolari come mai è successo per un fatto storico

“Per un pugno di ceci…”. I ceci di cui si parla nel volumetto di Giuseppe Pitré (scritto nel 1886) sono drammaticamente legati all’episodio del Il Vespro Siciliano, attorno al quale — come scrive l’autore nell’‘Avvertenza’— ruotano tante di quelle tradizioni popolari come mai è successo per un fatto storico: «Leggende comuni a tutta l’isola, proverbi, modi e frasi proverbiali, canzoni, usi, giuochi infantili narrano, cantano, ricordano in cento guise la terribile strage e le svariate circostanze di essa».

Come capitolo di storia, i Vespri siciliani furono una rivolta scoppiata a Palermo il 31 marzo 1282 nel  tentativo dei siciliani di liberare l’isola dal malgoverno degli Angioini. La scintilla che fece scoppiare la ribellione è fatta scaturire dal comportamento incauto di un soldato francese, tal Drouet, il quale in quel  pomeriggio del lunedì di Pasqua, ferma una coppia di coniugi aristocratici che sta entrando nella chiesa del Santo Spirito per la celebrazione dei Vespri e, con il pretesto di una perquisizione alla ricerca di armi, molesta la nobildonna, provocando lo sdegno e la vendetta del marito. Drouet fu ucciso e, nel corso della serata e della notte che ne seguì, le violenze nei confronti dei francesi dilagarono in tutta l'isola, trasformandosi in una vera e propria carneficina. «Dicinu ca quannu li Francisi erunu ‘n Cicilia, e facianu di patruna, li Palermitani, ca musca a nasu ‘un si nn’hannu fattu passari mai, s’arribbillaru e ficiru tagghia ch’è russu di tutti li Francisi. E chistu fu lu ‘Vespiri sicilianu’» (XX – Palermo, ‘La cruci di lu chianu di S. Anna,’ p. 42 – traduzione nel primo commento). La ribellione diede avvio a una vera e propria guerra, conclusasi  con la Pace di Caltabellotta.

La Storia però, come spesso accade, si stringe in un forte abbraccio con la leggenda. Lo sa bene il famoso etnologo siciliano che nella sua opera ‘Il Vespro Siciliano nelle tradizioni popolari della Sicilia’ ha raccolto dalla voce dei cantastorie e da altre fonti orali, diverse varianti del racconto dell’episodio, ben radicato nella tradizione popolare.

Comune a tutta la Sicilia è la leggenda nella quale ricorrono, costanti, due elementi. Il primo è un presunto ‘Ius primae noctis’ spettante ai soldati di Carlo nei confronti delle donne siciliane: «Riccuntanu l’antichi ca (…) li Francisi (…) misiru la liggi, ca li donni siciliani cu’ si maritava s’avia a curcari la prima sira c’un francisi e poi toppu cu lu maritu; (…) si era una ricca, si cci curcava un capitanu francisi; si era di la mastranza, si cci curcava un sargenti o puru un capurali; si era una povira, si cci curcaa un surdatu» (IV – Borgetto, p. 16); Alcune versioni della medesima leggenda hanno come protagonista ‘Gammazìta’, bellissima giovane catanese che, promessa a un suo compaesano, per sfuggire alle molestie di un soldato francese mantenendo integro il suo onore, si gettò in un pozzo della zona (XXIII – Catania, ‘Gamma-Zita’, p. 46).

Il secondo elemento è la figura di un uomo (a seconda le varianti frate, farmacista, calzolaio) il quale per difendere l’onore delle donne siciliane, si sarebbe finto pazzo con i francesi (che per questo lo deridevano) abile invece nel complottare con i compaesani, tanto da ordire l’eccidio del 31 marzo. È un fatto che tra gli organizzatori della rivolta ci fu anche Giovanni da Procida, medico di Federico II. La memoria sociale ha fatto il resto: «Li Palermitani (…) si misuru a fari un comprotu. Si vôta unu vistutu monacu, ca si chiamava Procita» (III – Ficarazzi, p. 15); «Cc’era un omu di gran curaggiu e valurusu (…). St’omu si chiamava Giuanni Procita».

Fin qui storia, leggenda, tradizione popolare. Ma il ruolo dei ceci in tutto questo? Si racconta che i siciliani per smascherare i francesi camuffati da popolani per sfuggire al massacro siano ricorsi a uno ‘Shibboleth’ con la prova del ‘cìiciru’ (cece). Lo ‘shibboleth’, in linguistica, indica una parola o locuzione che, per la sua complessità fonologica, risulta difficile da pronunciare a chi parla un’altra lingua. Per questa ragione, la parola può essere usata come segno di riconoscimento di un gruppo linguistico nei rispetti di un altro.

Ebbene, i francesi, incapaci di pronunciare la ‘c’ palatale tipica della lingua siciliana, avvicinati da popolani con in mano una manciata di ceci (‘cìciri’, in siciliano), tradivano la loro nazionalità, pronunciando  ‘sciscirì’, sisirì o kìkiri. Venivano così scoperti e «cui dicìa ‘chicara’, trrr! la testa tagghiata!» (XVIII – Trapani, ‘ Lu tagghia-tagghia di li Francisi’, p.39).

Inoltre, a Palermo «Pi canusciri si eranu francisi, cci facevanu diri ‘cìciri’, e si dicevano ‘chìchiri’, cci davanu di manu, pirchì lu francisi ‘un sapi diri ‘cìciri» (I. – Palermo, p. 11); così a Partinico, dove, per scovare qualche francese camuffato da siciliano: «mettinu a dimannari a tutti chiddi chi scuntravunu: — “A tia, dici ‘cìciri’.”— “Cìiciri.” — “Va, ca Cicilianu sì’! e lu mannavanu. Si poi arrispunnìa: “Chìchiri” (pirchì li Francisi ‘cìciri’ nun lu sannu diri), allura: — “Ah carugnuni! Di la mala jinia sì’? Ammazzatu!” e lu facianu a pezzi (V. – Partinico, p. 18).

Infine, a Borgetto: «Quannu marzu arrivau e vinni l’ura di lu vèspiru  (…) [i congiurati] javanu dumannànnu a tutti chi scuntraunu: — “A tia, dici ‘cìciri.” — “Cìciri.” — “Vattìnni ca si’ di li nostri. — Tu, dici ‘cìciri’” — “Chìchiri.” — “Ah, scilliratu! Tu ‘nfami francisi si’! e l’ammazzavanu senza piatà: e pirchì li Francisi nun putìanu diri ‘cìciri’ e dicìanu ‘chìhiri’, li canuscìanu allura; e accussì nni livàru di ‘mmenzu tutta la mala simenza» (IV. -  Borgetto, p. 16).

Oltre ad altre varianti di questa leggenda, nel libretto sono da apprezzare usi, giochi, proverbi e modi di dire ad essa riferiti, naturalmente narrati in dialetto siciliano, così distante eppure straordinariamente comprensibile (nel primo commento riportiamo la traduzione delle parti in dialetto). Il libretto di Giuseppe Pitrè ‘Il Vespro siciliano nelle tradizioni popolari della Sicilia’ è disponibile in biblioteca. Esso presenta un bellissimo timbro a secco apposto a pagina 59, testimone della preziosa vetusta dell’opera e della biblioteca “M. Gatti”.

 

Traduzione p. 42: «Dicono che quando i Francesi erano in Sicilia, e facevano da padrone, i palermitani, che non si sono mai fatto passare una mosca sotto il naso, si ribellarono e fecero a pezzi ( ‘tagghia ch’è russu’ = ‘tagliare a pezzi’, per metafora dal cocomero il quale riuscito ben rosso si taglia a pezzi. Cfr. Michele Pasqualino, voce ‘tagghia’ in ‘Vocabolario Siciliano etimologico, Italiano e Latino’, 1795) tutti i Francesi. E questo fu il Vespro siciliano».

Traduzione p. 16: «Raccontano le persone anziane che (…) i Francesi (…) instaurarono la legge che le donne siciliane che si sposavano dovevano andare a letto la prima sera con un francese e dopo con il marito; (…) se era una donna ricca, andava con un capitano francese; se era del ceto medio ( mastranza = maestranze, ‘l’insieme delle attività manuali’) andava con un sergente oppure un caporale; se era povera, andava con un soldato».

Traduzione pp. 15 e 16: «I palermitani (…) prepararono un complotto. Si fece avanti uno vestito da monaco, che si chiamava Procida»; «C’era un uomo coraggioso e valoroso (…). Quest’uomo si chiamava Giovanni Procida».

Traduzione p. 11: «Per sapere se erano francesi, facevano pronunciare loro la parola ‘cìciri’, e se dicevano ‘chìchiri’, li menavano, perché i francesi non sanno pronunciare la parola ‘cìciri’».

Traduzione p. 18: «chiedevano a tutti coloro che incontravano: — “Tu, pronuncia ‘cìciri’.”— “Cìciri.” — “Vai, sei siciliano! e lo lasciavano andare. Se invece rispondeva: “Chìchiri” (perché i Francesi la parola ‘cìciri’ non la sanno pronunciare), allora: — “Ah mascalzone! Sei di mala stipe? Ammazzato!” e lo facevano a pezzi».

Traduzione p. 16: «Quando arrivò marzo e venne l’ora del vespro [i congiurati] domandavano a tutti coloro che incontravano: — “Tu, pronuncia ‘cìciri.” — “Cìciri.” — “Vattene sei dei nostri. — Tu, pronuncia ‘cìciri’” — “Chìchiri.” — “Ah, scellerato! Tu sei un ignobile francese! e l’ammazzavano senza pietà: siccome i francesi non potevano pronunciare ‘cìciri’ e dicevano ‘chichiri’, li riconoscevano; e così eliminarono tutta la mala stirpe».











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