domenica 14 dicembre 2025


13/12/2025 08:41:45 - Manduria - Cultura

La descrizione di Manduria, “celebre nella storia per le sue disgrazie”

Funzionario del Regno borbonico, il marchese Giuseppe Ceva Grimaldi (Napoli, 1777-1862) fu inviato in Terra d’Otranto in qualità di Intendente della Provincia, con il compito di porre fine alle violenze perpetrate da gruppi di carbonari e di briganti.   

Uomo di grande cultura, il Grimaldi cominciò il suo viaggio nella primavera del 1818: da Napoli, attraversò il Tavoliere, la Terra di Bari e tutta Terra d’Otranto fino a Leuca.

Il libro è suddiviso in brevi capitoli, 44 in tutto. Nei primi 31 capitoli l’Autore ripercorre le tappe del suo viaggio, presentandole al lettore in un linguaggio ricchissimo di riferimenti letterari, storici e mitologici, che egli desume da testi di riferimento dell’epoca, opportunamente riportati in nota. Nei rimanenti 9 capitoli, il Ceva Grimaldi analizza l’economia di Terra d’Otranto (agricoltura, allevamento, artigianato, commercio), gli usi e le tradizioni (dalle prefiche alla tarantola all’istituzione dei camposanti, la vita culturale (a Lecce e a Taranto), rendendo al lettore un inedito affresco storico-sociale di numerosi paesi.   

Tanti i paesi di cui l’Autore scrive. A cominciare dalla stessa Napoli «bella regina del Tirreno», proseguendo per Avellino dove «lavoransi quelle incomode sedie che poi si spargono nei due Principati, e nelle Puglie».[1] 

Ed eccola la Puglia e le sue «immense pianure». Foggia  con le sue “fosse del grano”; d’un tratto, nei pressi del fiume Ofanto, altre coltivazioni si presentano alla vista, «come in una scena da teatro»: alle sterminate pianure «succedono gli oliveti ed i giardini, di cui son liete le province di Bari e d’Otranto».

Di Bari, la cui origine affonda nel mito,  intrigante appare la notazione sulle donne, «particolarmente le donzelle che sono linde e ben fatte: l’acconciatura de’ loro capelli con de’ nastri intrecciati è graziosa, e ricorda le acconciature che trovansi talvolta nelle statue greche». Bellissima la descrizione della costa barese, indicata come «un continuo poema della natura». 

Leggiamo di Brindisi («regina delle strade»), di Otranto («così antica, che non ne rimane neppur vestigio»), di Leuca, del suo porto («che sembra quello descritto da Virgilio nel terzo libro dell’Eneide) e del suo santuario («Era qui il tempio di Pallade (…) dove fu riposto il fatale palladio rapito a Troia»).

Una sosta narrativa più lunga è riservata a Taranto («Chi mi darà voce e le parole convenienti a sì nobil soggetto»), a cui sono dedicati tre capitoli. Nel primo leggiamo di Livio, Polibio, Plutarco, Strabone, Pausania, Orazio, Virgilio che «contengono l’istoria e la poesia dell’antica Taranto». Il secondo capitolo è dedicato alla lavorazione della porpora, le cui «officine» erano verosimilmente collocate presso i monaci Alcantarini, dove «trovansi immensi ammassi di conchiglie»). L’ultimo capitolo è dedicato alle divinità venerate dai Tarantini «Pallade cittadina e Venere armata».

Una breve sosta a Martina, dove «Gli amatori de’ bei cavalli vi troveranno la più bella razza che ve ne abbia nel regno» ed ecco giunti a Manduria.

«Manduria è celebre nella storia per le sue disgrazie; Fabio Massimo la saccheggiò e fece prigionieri 4000 de’ suoi abitanti, fu quindi distrutta dai Saraceni. Ma né Fabio, né i Saraceni, né il tempo hanno distrutta le ingenti reliquie delle sue mura, che somigliano ad opera “Ciclopica”. Questa città è posta in un dolce piano inclinato verso occidente, è ben fabbricata, ha belle piazze ed ampie strade, il palazzo dei principi di Francavilla già feudatarj del luogo è così magnifico, che farebbe l’ornamento di una gran capitale».

E le altre disgrazie? Ecco che il Ceva Grimaldi individua «uno straordinario flagello», quello delle abbondanti piogge, in seguito alle quali, in alcuni anni, la città «viene allagata dalle acque, che dalle parti più alte del suo territorio scorrono per le strade interne, e talvolta acquistano un’altezza di 5 in 6 palmi, e penetrando i piani in terreno portan via ciò trovano, minacciano di atterrar le case dai fondamenti, e lasciano un’umidità più fatale ancora, perché causa di frequenti malattie». Pur riconoscendo gli sforzi e l’impegno che il governo della città ha messo in atto per evitare tale calamità, l’Autore afferma che «le città hanno come gli uomini un destino, e ve ne ha di quelle che l’infelicità continuamente affligge».

Manduria, inoltre, è resa celebre nel “Romanzo di Telemaco” di Fenelon,[2] ma, geografia a parte (il Ceva Grimaldi non ne è molto convinto), «Manduria è oggi celebre pe’ “rosolj” e le confetture di cui provvede la provincia intera, vi si fanno altresì graziose statuette di zuccaro, che rappresentano per lo più maschere nazionali o deità favolose, e se ne compone il “deser” (…). Alla fine del pranzo costumasi porre in pezzi queste statuette e distribuirle a convitati». Una «ingrata costumanza» la definisce l’Autore, quella di distruggere tali meraviglie create per il piacere della vista (come riportato nei versi del poeta francese Ioseph Berchoux[3]).


[1] Si tratta di sedie dalla forma normale, ma molto più basse rispetto al normale, in voga nei secoli scorsi in Avellino  (e ancora prima a Venezia) che costringevano, fra l’altro, ad allungare le gambe per allontanarsi dal braciere.

[2] Pseudonimo di Francois de Salignac de la Mothe, arcivescovo cattolico, teologo e pedagogo francese, 1651-1715.

[3] Non distruggete queste dolci meraviglie, / preparate solo per il piacere degli occhi; / o almeno conservatele, affinché possano essere gustate più a lungo, / pochi giorni di esistenza per questi dolci monumenti: / molti altri oggetti, degni del tuo omaggio, / con meno apparati ti piaceranno di più. / Ah! Piuttosto, assapora questi frutti / che un'arte non ufficiale ha ridotto a una composta. / Alla grazia, allo splendore, sacrifica ancora; / ai tesori di Pomona aggiungi quelli di Flora; / lascia che la rosa, il garofano, il giglio e il gelsomino / facciano dei tuoi dessert un grazioso giardino; / e lascia che l'osservatore e che l'osservatore della bella natura / è rapito nel vedere i fiori in marmellata.

(Ne démolissez poinnt ces merveilles sucrées, / pour le charme des yeux seulement préparées; / ou du moins accordez, pour jouir plus long-temps, / quelques jours d'existence à ces doux monuments: / assez d'autres objets, dignes de votre hommage, / avec moins d'appareil vous plairont davantage. / Ah! plutot attaquez et savourez ces fruits / qu'un art officieux en compote a réduits. / A la grace, à l'eclat sacrifiez  encore; / aux trésors de Pomone ajoutez ceux de Flore; / que la rose, l'oeillet , le lis et le jasmin, / fassent de vos desserts un aimable jardin; / et que l'observateur  et que l'observateur de la belle nature / s'extasie en voyant des fleurs en confiture).