L’avv. Giorgio Carta: «Quando, una volta chiarite le dinamiche, l’indagine o il processo si chiudono con un pieno proscioglimento, si apre un paradosso tutto italiano: il rimborso delle spese legali sostenute dall’agente potrebbe essere non scontato né integrale»

Sulla vicenda dei due poliziotti che hanno catturato, dopo un conflitto a fuoco, l’assassino del carabiniere Legrottaglie e il suo complice, interviene, con un post, uno dei due legali, l’avv. Giorgio Carta. Ecco il suo intervento.
«Da difensore coinvolto nella vicenda, dico che l’apertura di un’indagine a carico dei due poliziotti intervenuti nello scenario critico dell’uccisione del brigadiere Legrottaglie, è un passaggio giuridicamente necessario. È il cosiddetto “atto dovuto”: una garanzia di legalità, non un’accusa, che ci consentirà di partecipare a momenti chiave dell’accertamento tecnico, in primis l’autopsia, con nostri consulenti tecnici. È, quindi, una misura che tutela anche i poliziotti indagati, consentendo loro di concorrere a far emergere la verità in modo pieno e verificabile.
Ciò che troppo spesso resta sommerso è però il “dopo”. Quando, una volta chiarite le dinamiche, l’indagine o il processo si chiudono con un pieno proscioglimento, si apre un paradosso tutto italiano: il rimborso delle spese legali sostenute dall’agente potrebbe essere non scontato né integrale.
La criticità è che il nostro ordinamento prevede che l’Avvocatura dello Stato valuti la “congruità” della parcella legale pagata da militari e poliziotti, potendo anche decurtarla in nome di esigenze di “contenimento della spesa pubblica”.
L'articolo 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, prevede questa discrezionalità, attribuendo all’Avvocatura erariale la facoltà di riconoscere o meno il rimborso totale, secondo criteri talvolta più economico-finanziari che equitativi, in ciò peraltro supportata dalle sentenze dei tar. Ma ciò che è legittimo, non è necessariamente anche equo.
Infatti, se il procedimento penale nasce per legge e riguarda fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali, è giusto che il singolo agente, infine assolto, sopporti in proprio i costi della difesa?
Il recente decreto sicurezza ha provato a dare un segnale, raddoppiando l'anticipo massimo elargibile da 5.000 a 10.000 euro. Un passo apprezzabile, certo, ma non risolutivo. Perché il nodo resta nella fase successiva al giudizio: la valutazione soggettiva della congruità. Il rischio, tutt’altro che remoto, è che la tutela resti sulla carta e che il poliziotto venga rimborsato solo in parte, visto che non di rado sono giudicate eccessive perfino le tariffe medie.
Questa situazione genera un effetto dissuasivo concreto: chi sa di poter finire indagato anche in casi evidenti di legittimo intervento e sa che dovrà difendersi in tutto o in parte a proprie spese, sarà indotto, anche inconsciamente, a esitare. Ma un poliziotto che esita, per paura delle conseguenze giudiziarie o economiche, non è più in grado di tutelare la sicurezza pubblica né sé stesso.
Se davvero lo Stato vuole dimostrare vicinanza alle proprie forze dell’ordine, la tutela legale non può essere soggetta a sconti o a revisioni contabili. È un dovere, non un favore.
Occorre allora rivedere radicalmente il sistema: eliminare la discrezionalità del rimborso, superare i limiti imposti dall’art. 18 e garantire che ogni agente prosciolto da un’indagine per fatti di servizio venga integralmente rimborsato. È una questione di equità, ma anche di funzionalità della sicurezza pubblica.
Lo Stato che pretende rischio personale e coraggio dai propri uomini deve offrire loro certezze. Non lasciare che, finita l’indagine, restino solo silenzi — e conti da pagare».
Avv. Giorgio Carta

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