domenica 19 maggio 2024

18/05/2009 22:12:12 - Manduria - Speciale

«Fiore mi invitò a non lasciare il Sud»

 
Se gli parli di «secolo breve», cita Orazio, gli «anni fugaci» e l’«angolo di terra più bello di ogni altro», verso inciso su una targa all’ingresso di Villa Ada, il buen retiro al cospetto del variabile azzurro, il mare di Campomarino in provincia di Taranto.
«Adesso il mare lo raggiungo assai di rado, ma mi emoziona ancora».
Il ‘900 di Piero Lacaita, editore manduriano, è stato così. Una lunga corsa ad ostacoli per affermare cultura laica ed impegno civile al Sud. Una scommessa giocata scrivendo e, soprattutto, pubblicando libri.
«Tante volte ho pensato di mollare il Sud».
Al cuore, però, bussavano parole come quelle di Tommaso Fiore:.
«Se lasci Manduria» scrisse in una lettera a Lacaita negli anni ’60, «il tuo spirito probabilmente si isterilirà o si affloscerà, e certo ti piegherai ad interessi estranei al Mezzogiorno. Rifletti bene a ciò che ti dico; non bisogna abbandonare il Mezzogiorno. Del resto Laterza ha lavorato a Bari e per tutta l’Europa…».
Un pensiero riaffiorato nel giugno scorso, alla cerimonia di consegna dell’onorificenza di Gran Croce, assegnata a Lacaita dal presidente della Repubblica Ciampi per la sua cinquantennale attività di editore.
Per lei un libro cos’è?
«E’ l’odore della carta, dell’inchiostro. Il rumore assordante delle macchine da stampa nella vecchia tipografia di famiglia, fondata nel 1902. E’ il rimprovero di mio padre perché volevo avvicinarmi troppo a quei congegni misteriosi e affascinanti. E’ la stessa scoperta del libro nella biblioteca di famiglia. Anche in quel caso l’odore, l’odore dei libri, è stato decisivo per il mio “innamoramento”. Oggi è il lavoro di un’intera giornata, il contatto con gli scrittori, la scelta delle copertine, la cura continua e personale della veste tipografica. Perché è vero: il libro è quasi un uomo. Se ho in mano un libro di Croce, posseggo il suo pensiero, le sue idee, quindi, la sua persona. In questo il libro è un mezzo insostituibile dalle moderne tecnologie. Fu un libro di Croce, “La Storia come pensiero e come azione”, a far maturare in me l’antifascismo, la fede liberal-socialista».
Che ricordo ha di Benedetto Croce?
«Premetto che i miei modelli di editore sono stati Valdemaro Vecchi di Trani e, ovviamente, Giovanni Laterza. Lo dico perché fu proprio il figlio di Giovanni Laterza, Franco, a farmi conoscere Croce. Era il 1944, Napoli era stata appena liberata. Mi ero laureato in Legge con Aldo Moro, discutendo una tesi sulla teoria crociana del diritto dello Stato. Il filosofo chiese quali intenzioni avessi per il futuro. Saputo del mio interesse per l’editoria, senza esitare e riferendosi a Manduria, alle mie origini, disse: segui il filone della questione meridionale».
Da uomo del Sud, si sente più vicino a Croce o a Leonardo Sciascia?
«Croce si realizza in un contesto filosofico, è erede dei valori risorgimentali. Sciascia è, invece, espressione della letteratura contemporanea più legata, sotto certi aspetti, alla questione meridionale. Croce rifiuta l’esistenza della questione meridionale. Sciascia nasce in quel contesto. Per formazione mi sento più vicino a a Croce, però, riconosco la Croce. Rispetto questione meridionale. E, in questo, ritrovo Sciascia. Ma ho avuto altri maestri: Gaetano Salvemini, per esempio; e Giustino Fortunato. Esiste un pensiero politico meridionale; esiste una questione meridionale che resta tema centrale anche se, si dice, non è più di moda».
Tra Aldo Moro e Luigi Pirandello, altre due espressioni del Mezzogiorno, chi preferisce?
«Moro era un intellettuale cattolico. Le confesso che i suoi testi di filosofia del diritto, come alcune sue figure politiche, risultavano a me incomprensibili. Credo sentisse la necessità di smuovere la Dc, ma il suo disegno era ardito. Non si rese conto che quel disegno non aveva rispondenze nella realtà del Paese, ma era lungimirante, questo sì. Pirandello è attuale, perché è stato profetico. Prenda per esempio la Margherita. Cos’è? Un soggetto politico formato da ex democristiani ed ex radicali come Rutelli. Un paradosso pirandelliano. La politica come metafora. Tutto conta, quindi niente conta. Una galassia informe. Incomprensibile. D’altronde i paradossi hanno prodotto al Sud pensiero forte. Anche politico. Ad esempio, sposo la definizione di Giustino Fortunato secondo il quale il fascismo rivelava l’Italia per quella che era nelle sue carenze storiche e sociali. Fortunato passava per conservatore, ma quella definizione lo avvicinava a Piero Gobetti, al fascismo come “autobiografia della nazione”».
Per «gridare» questi paradossi nella prima collana di libri Lacaita, alla fine degli anni ’40, figura «La Protesta Laica» di Gabriele Pepe.
«Appunto. La mia era, e rimane, una “protesta laica”. Nell’immediato dopoguerra pubblicavo fino a 5mila copie. Oggi se ne vendono a malapena mille. E’ lo specchio del degrado culturale. E se devo guardare ai numeri, la “protesta” non ha raccolto consensi. Ma la “pro - testa laica” è il contributo che la mia casa editrice ha cercato di offrire alla costruzione di un’Italia civile, di un Mezzogiorno civile, che trae linfa dalle idee innovatrici. La mia casa editrice è nata sulla spinta di una passione civile e politica ed è diventata uno strumento di lavoro. Contestualmente è cresciuta la passione socialista, alimentata dalle idee di Gobetti e dei fratelli Rosselli. La politica mi ha poi deluso, perché nell’Italia postfascista i partiti non riuscirono a legare tra loro politica e cultura, approfondendo il solco tra paese legale e paese reale. In questo individuo le radici della crisi di fine secolo».
Eppure lei è stato anche sindaco di Manduria.
«La politica mi è servita ad affinare il pessimismo della ragione. Quello che ci ha insegnato Norberto Bobbio. Lo invitò, negli anni ’60 quando amministravo Manduria, il circolo culturale De Sanctis. La sua lezione fu straordinaria: l’intellettuale si impegna nella ricerca, ma ad un certo punto è preso dal dubbio. E meno male. Perché i politici, di dubbi, non ne hanno».
Politica e cultura non possono dialogare?
«La classe dirigente non è capace di proiettare il Paese verso un avvenire sicuro. Il Paese è ridotto ad un cumulo di mediocrità. C’è, poi, il proliferare di un’editoria che punta al locale non offrendo alcun contributo alla crescita culturale delle nostre province. E’ illusorio pensare che in futuro ci possano essere spazi per gli editori che puntano sul locale. E’ solo apparenza: una rimasticatura del passato. In questo senso va mossa una critica agli enti locali, dalla Regione in giù, che sovvenzionano iniziative culturali da sottobosco».
E i giovani?
«Il loro rapporto con la cultura è un problema serio, che riguarda il destino del Mezzogiorno, del Paese. Mi angoscia la gioventù che rompe con le tradizioni. Io sono un laico convinto, ma reputo negativa la rottura con la tradizione religiosa senza un’etica che supplisca. Oggi si corre il rischio di una società totalmente priva di valori. Abbiamo, invece, il dovere di alimentare i valori se vogliamo costruire il futuro»”.
Da laico, cosa pensa degli integralismi?
«Aiutano il pensiero laico. E sa come? Il pensiero laico è la chiave per scoprire il grande bluff degli integralismi. Solo il pensiero laico può far vincere la tolleranza. Lo dico anche agli amici cattolici: la differenza fra un editore laico ed uno integralista sta proprio nel fatto che il primo può pubblicare il libro di uno scrittore cattolico; il secondo non lo so, perché è più difficile che accada»”.
 La sua produzione comprende anche tanta poesia, che le ha dato soddisfazioni editoriali prestigiose.
«Negli anni ’70 pubblicammo una collana paragonabile allo “Specchio” di Mondadori. La differenza? Mondadori pubblicava poeti “arrivati”: Quasimodo, Bodini; noi cercavamo i giovani, le speranze come Michele Pierri o ci dedicavamo agli “omaggi”: Rocco Scotellaro, Albino Pierro. La collana, “I testi”, era diretta da Leonardo Mancino e Giacinto Spagnoletti. Tra i successi che ricordo con piacere, il premio Mondello a Taormina con “Poesie da Smerdiakov” di Giovanni Giuga e il premio Viareggio vinto con la raccolta di poesie “Le terre della sete” di Carlo Francavilla di Castellana Grotte. Erano gli anni ’70, anni in cui disegnavamo, per i poeti, per i poeti del Sud, una “rivolta civile” come scrisse Mancino».
Il futuro?
«E’ per un’editoria che ha capacità di strutturarsi ed inserirsi nella cultura europea, avendo come punti di riferimento la laicità e, appunto, la rivolta civile. Oggi la sfida è rappresentata dall’essere, insieme, cittadini del Sud, cittadini italiani, cittadini d’Europa…». 
 
 
Fulvio Colucci
 








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