mercoledì 15 maggio 2024

15/01/2010 10:01:02 - Provincia di Taranto - Cultura

Un interessante saggio di Francesco Lenoci sulla civiltà di Martina a 700 anni dalla sua fondazione

 
A febbraio, sempre  a Milano, la città dove generazioni di Pugliesi hanno dato il meglio di sè stessi, presenterò il libro di Francesco Giuliani “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”: tornerò indietro di un secolo.
Questa sera, insieme a voi, da Milano, vorrei superare in arditezza quel viaggio, andando indietro di tre secoli, per poi tornare con la velocità della luce al presente e, quindi, parlare del futuro.
Per muoverci nel tempo ci avvarremo della formidabile macchina del tempo che hanno messo a nostra disposizione l’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, il Comune di Martina Franca, la Basilica di San Martino, il Festival della Valle d’Itria, la Fondazione Paolo Grassi, la Fondazione Nuove Proposte Culturali e la Fondazione Lino Cassano. Grazie....Grazie di cuore.
Prima di azionare la macchina del tempo, devo specificare che Martina non vanta il fascino della Messapia, pur trovandosi il suo territorio adiacente a quello dei Messapi.
Martina non è nella Magna Grecia, come Taranto e Metaponto, ricche di memorie dell’epoca.
Martina non custodisce ricordi dell’antichità romana, come Brindisi e Egnatia.
Adesso possiamo azionare la macchina del tempo….siete pronti?
Partiamo….Novecento….Ottocento….Settecento.
Sul finire del Settecento Martina ha 15.000 abitanti. Vale a dire poco meno dei 20.000 abitanti di Bari, dei 18.000 di Taranto e dei 16.000 di Cerignola. Ossia più dei 14.000 abitanti di Lecce e Trani e dei 5.000 di Brindisi.
Siamo, lo ripeto, nel Settecento e  Martina non ha glorie antiche da cui trarre beneficio, né gode più di esenzioni in termini di pagamento di imposte e tasse.
Ciononostante, ha un presente in attivo, è capace di creare valore. Grazie a cosa? È presto detto: grazie ai tre elementi che costuiscono il capitale intellettuale, da sempre in grado di fare la differenza: il capitale umano, il capitale strutturale e il capitale relazionale. Chiarisco il concetto: Martina crea valore grazie alle interrelazioni tra:
Ø     le conoscenze e le competenze delle sue 15.000 risorse umane;
Ø     la capacità di innovazione, l’efficienza e l’efficacia organizzativa;
Ø     il patrimonio di relazioni instaurate con il mercato e l’ambiente esterno.
Procuriamoci  dati più precisi sul capitale umano.
La società borghese di Martina è colta. L’elenco è il seguente: nel clero, sedici dottori di legge, cinque laureati in sacra teologia e quattro predicatori quaresimali; nei secolari, quattordici dottori di legge, nove di medicina, sei di chirurgia, undici notari, quattro marescalchi, quattro agrimensòri, quattro ingegneri e matematici; cinque pittori, sei speziali, due sellari, un cappellaro, due fòndachi di panni e drappi, e quattro di cera e drogarìe” (Cfr. Isidoro Chirulli, Storia della Franca Martina, 1.749)
Il vantaggio competitivo di Martina, in altri termini, è la vivacità culturale, in un contesto in cui domina l’ignoranza. Tanto per capirci, nel Regno di Napoli alla fine del Settecento ci sono, in tutto, ventotto scuole elementari.
Martina, sia lode e gloria al capitale relazionale,  riceve informazioni per nulla ritardatarie su ciò che avviene nel mondo artistico europeo. Arrivano propaggini napoletane e, anche e addirittura, gli ornati capricciosi del rococò.
Nasce la meravigliosa facciata della Basilica di San Martino, che investe ad una struttura borrominiana il gusto degli ornati rococò. Da quella facciata, grazie ad abilissimi scalpellini e intagliatori, discende la copiosa e minuta prole dei portalini, che rende tanto gradevoli e civili le straduzze di Martina.
Ma non è tutto. Valutiamo alcuni dati relativi al capitale strutturale.
La società borghese di Martina è anche florida e ricca, grazie alla sua agricoltura, ai suoi commerci. Cavalli e biade, pecore e pascoli, ghiande e porci saporosi, lana, tessuti. Sapete quanti telai c’erano a Martina nel Settecento: più di duemila. In buona sostanza, un telaio ogni quattro persone in età lavorativa (Cfr. Cesare Brandi, Martina Franca, Guido Le Noci Editore, 1968).
Lo spirito imprenditoriale, insomma, è diffusissimo, tanto da riuscire a trasformare quella che è ancora adesso una calamità, ben nota a coloro che vivono a Milano, in un’opportunità.
Nel Settecento i Martinesi conservano la neve nelle neviere. E quando non nevica lasciano le neviere inutilizzate? Certo che no! I proprietari e gli appaltatori delle neviere fanno arrivare la neve dalla Basilicata, dalla Calabria e, persino, dalla Grecia.
Dalla neve, diventata ghiaccio nelle neviere, i Martinesi ricavano e vendono, in estate, i famosi e voluttuosi sorbetti al limone, al rosolio, alla menta, al vin cotto (Cfr. Angelo Marinò, Martina Franca Ieri, Edizioni AGA, 1993, pagg. 27-28).
Purtroppo, come in un celeberrimo film, la macchina del tempo non ci consente di rimanere a lungo nel passato e, quindi, dal Settecento torniamo  ai giorni nostri.
Ebbene, grazie ai nostri Avi (non mi stancherò mai di ripeterlo: noi siamo dei nani, ma abbiamo la fortuna di poter salire sulle spalle di giganti) nelle strade del Centro Storico di Martina, ovunque, si trova qualcosa di incantevole da vedere con grande piacere: un portone, un balcone, una finestra, una terrazza, un’edicola votiva….
Una constatazione che ha dell’incredibile, se si pensa quanta importanza abbia la firma dell’architetto, dell’ingegnere: Martina è, in buona sostanza, contraddistinta dall’anonimato architettonico.
Ma la cosa ancora più incredibile è che il cuore di Martina, il suo Centro Storico e la  meravigliosa valle su cui  si affaccia, la Valle d’Itria, non sono affatto anonimi: ogni cosa sembra firmata da un’artista gentile e modesto.
Per descrivere tutto ciò, la prosa non basta….occorre la poesia. La poesia, meravigliosa, è di Sante Ancona (Cfr. Teresa Gentile, Iridescenze 2009, Edizioni Pugliesi, 2009, pag. 28).
Sei grande, contadino.
Tu costellasti questa cittadina
di fazzoletti d’oro e di smeraldo;
di trulli biancheggianti come perle.
Pietra su pietra
ti erigesti un monumento in Valle d’Itria.
Spettacolo maestoso
unico al mondo.
S’incanta il forestiero ad ammirare.
Chi è stato?
Michelangelo, Bernini, Raffaello?
egli domanda.
Ma no, signori! È stato un contadino,
un figlio della terra
e a fare i trulli
è stato un muratore.
Entrambi analfabeti,
ma nel cuore l’Arte e l’Armonia.
Sei grande contadino!
Perché vi sto raccontando tutto questo, oggi, 10 gennaio 2010, nel Circolo della Stampa di Milano?
Perché abbiamo qualcosa che accomuna tanti di noi, qui riuniti nella meravigliosa Sala Bracco, per rendere omaggio ai primi settecento anni di Martina.
Che cos’è?
È la lontananza dalla terra natia.
Ma cos’è la lontananza?
La lontananza, come cantava Domenico Modugno, “è come il vento: spegne i fuochi piccoli….accende quelli grandi”.
È strano a dirsi. La lontananza ci ha permesso di apprezzare meglio luoghi e personaggi che, altrimenti, non avremmo neppure notato e di provare sentimenti, che altrimenti ci sarebbero stati sconosciuti.
Padron N’Toni diceva nei Malavoglia: “Ad ogni uccello….il suo nido è bello”. E anch’io confesso il profondo amore che mi lega alla città dove sono nato ma, lo ribadisco, una cosa è viverci, ben altra cosa è tornarci qualche volta.
Ditemi voi se sbaglio, affermando che sei martinese se ti lamenti sempre della tua città ma, quando ci vivi lontano, ne parli come se fosse il paese delle meraviglie. Ditemi voi se sbaglio, aggiungendo che sei martinese se, incontrando fuori dalla Puglia un tuo concittadino, che non avevi mai considerato a Martina, ci parli come se lo avessi frequentato da una vita.
La domanda che sorge a questo punto  spontanea è perché vorrei tanto che ciò che io e gli altri relatori vi stiamo dicendo questa sera e tanto…tanto altro venisse raccontato nel corso del 2010 in tante…tante altre città d’Italia e del mondo?
La risposta è….perché dobbiamo fare di tutto….di più per arricchire le tante cose belle ricevute in eredità dai nostri Avi….per trasmetterle ai tanti innamorati di Martina ….e a quanti verranno dopo di noi. E, ne sono più che certo, per far questo occorre evitare il solito parlarci addosso.
Di tutto….di più….è un’espressione che ho mutuato da una celebre pubblicità della RAI. Ma non basta, ci serve uno slogan efficace. Lo slogan che ho coniato è: “Martina Franca: cultura del traino, traino della cultura”.
Quando l’ho comunicato ai 2.030 membri del gruppo di Facebook “HOMAGE TO MARTINA FRANCA per i primi 700 anni”, in tanti mi hanno chiesto di chiarirne il significato.
Non l’ho mai fatto. Siete i primi a sapere cosa ho in mente.
La considerazione che mi ha guidato è che l’impossibilità di assistere solo come spettatore al cambiamento degli eventi,  la capacità di trainare dal punto di vista culturale è nel DNA di Martina, come testimoniano la sua vicenda storica, le sue valenze urbanistiche, la sua ritualità popolare, le sue tradizioni religiose, la sua capacità imprenditoriale, le sue composizioni artistiche, la sua espressione linguistica.
Permettetemi una digressione su un argomento che mi sta particolarmente a cuore. Con riguardo all’espressione linguistica non posso tacere che sei martinese se certe cose sai dirle solo in dialetto e non sai tradurle in italiano. E pur di dirle in dialetto, in qualunque posto tu viva, non volendo essere scortese…. le insegni agli altri.
È un bene o un male parlare in dialetto e insegnare il dialetto ai nostri figli?
È un atto dovuto! Per dimostrarlo, faccio ancora una volta ricorso all’incipit  di una poesia, quella di Ignazio Buttitta. La versione originale è in dialetto siciliano; leggerò la traduzione in lingua italiana  (Cfr. Teresa Gentile, Iridescenze 2008, Edizioni Pugliesi, 2008, pag. 37).
Un popolo
mettetelo in catene
tappategli la bocca
è ancora libero.
Toglietegli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto dove dorme
è ancora libero.
Un popolo diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua avuta in dono dai padri.
È perso per sempre . . . .
Faccio un esempio, volto a testimoniare la straordinaria  forza del dialetto. Tra un po’, uscendo da questa meravigliosa sala, avremo freddo. Se dicessi a mia nipote Gabriella “copriti” . . . . non so mica se lei ubbidirà. Se, invece, le dico “abbùcckt”, io sono certo che lei si riparerà dal freddo, perché penserà (grazie alla magia del dialetto) che il consiglio premuroso non gli arriva da un adulto qualsiasi,  . . .ma da suo zio . . . .e anche da sua madre, da suo padre, dai suoi nonni.
Sia lode e gloria all’Associazione Artigiana di Mutuo Soccorso di Martina che, in questo preciso momento, sta premiando i ragazzi, i giovani e gli adulti vincitori della seconda edizione del Premio Letterario “Paolo Grassi”: poesie in vernacolo martinese.
Ma torniamo ai concetti di cultura e traino che ho in mente.
Che cos’è la cultura?
La cultura è umanesimo, il segno che l’uomo con il suo sapere, il suo saper fare e il farlo sapere imprime alla natura e alla storia.
L’uomo è parte di un contesto che gli offre forme già consolidate di pensiero e azione. Queste forme costituiscono la cultura che, quindi, comprende lingua, costumi, strutture, diritto, consuetudini, istituzioni, morale, arte.
Fare cultura significa agevolare la conoscenza, favorire la ricerca, aprirsi al confronto e al dialogo, stimolare la critica, pianificare strategie di ampio respiro.
Ecco, allora, la cultura costituita da formazione e sollecitazione di una mentalità critica e in costante ricerca, capace di valutare il presente e stabilire strategie di intervento in esso ma. . . .senza dimenticare la tradizione e la storia . . . .e con attenzione massima  ai segni dei tempi che proiettano verso il futuro.
Cultura intesa, dunque, come intervento nella storia,  modellato dal sapere e fortificato dalla saggezza.
E non come mezzo di arroccamento in torri d’avorio. Guai a chi si rinchiude nel borgo! Guai a chi ha piedi e testa nel borgo!
Come ci ha insegnato un grande profeta, don Tonino Bello:
Ø     la cultura è impegno, servizio agli altri, promozione umana come il riconoscimento della persona libera, dignitosa e responsabile;
Ø     la cultura è cemento della convivenza, orizzonte complessivo, strumento di orientamento, alimento di vita;
Ø     l’elaborazione culturale diventa una via obbligata per individuare stili di vita, modalità di presenza e di comunicazione, attenzione alle attese delle persone e della società, per esprimere le ragioni della speranza e accettare responsabilità in spirito di servizio.
Spirito di servizio….ecco cosa ho in mente quando utilizzo l’espressione “traino”.
Come ci insegna il ciclismo, chi si mette in testa al gruppo a tirare. . . . prende il vento il faccia, fatica molto di più di chi resta a ruota.
Ma è un impegno che lo fortifica e lo esalta! Ma ha maggiori probabilità di evitare forature e cadute! Ma ha l’enorme privilegio di vedere . . . . prima degli altri. . . . rischi e opportunità!
Martina e tante altre città italiane devono imboccare la strada che porta a modelli come ….un nome per tutti:  Helsinki.
Helsinki e altre città illuminate si sono avvantaggiate, staccando di brutto il foltissimo  gruppo in cui si trova Martina.
C’è un solo sistema per ridurre o colmare il distacco: qualcuno, più si è . . . meglio è, deve mettersi in testa al gruppo a tirare. E quel qualcuno deve essere attrezzato per fare ciò: tanto per capirci non può essere uno scalatore, che avanza a scatti facendo impazzire chi cerca di stargli a ruota, ma deve essere un passista che avanza in progressione.
Assodato che Martina deve mettersi in testa al gruppo a tirare, fornisco qualche istruzione operativa.
Perché Martina è famosa? . . . .L’ho detto tante volte, è famosa per il Festival Musicale della Valle d’Itria, per il Rococò, per i Trulli, per l’Asino, per il Capocollo, per il Capo Spalla.
Sono questi i vantaggi competitivi di Martina. Sono queste le eccellenze che Martina, i martinesi e tutti i loro corrispondenti in ogni parte del mondo debbono promuovere  . . . .facendo strada insieme, vale a dire (per rendere meglio l’idea passo ad uno sport ancora più universale del ciclismo: l’atletica leggera) passandosi “il testimone” come in un’ideale staffetta.
È questa la strategia da seguire.
Provo a chiarire  meglio questo concetto con tre esempi:
Ø     quando gli allevatori dell’Asino di Martina  vanno alla Fiera di Verona  . . . .debbono rappresentare tutta la città;
Ø     quando gli imprenditori del settore Abbigliamento di Martina vanno a Firenze, a Pitti Uomo, debbono essere ambasciatori di tutta la città;
Ø     quando i produttori del Capocollo di Martina vengono a Milano, per le manifestazioni preliminari a EXPO 2015, debbono farsi portavoce dell’intera città.
D’altro canto, è chiaro che la città di Martina  deve supportare questi suoi speciali staffettisti, cioè coloro che fanno viaggiare il più velocemente possibile un siffatto “testimone” correndo in maniera organizzata sia per sé  stessi che per gli altri.
Individuate le eccellenze, aggiungo che occorre puntare al massimo su tali eccellenze, un grande dono dei nostri Avi, avendo presente ciò che diceva un grande compositore e direttore d’orchestra austriaco, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.
Dove voglio arrivare? Voglio arrivare a dire, ad esempio, che i giovani che apriranno una gelateria a Martina. . . . a Milano….a Helsinki, rifacendosi alle tradizioni prima menzionate, non possono e non debbono chiamarla “gelateria” . . . .“bar” . . . .“caffè”….bensì “sorbetteria martinese”. È la forza della propria storia, del proprio gusto artistico e dei valori culturali che rende unico un prodotto!
Martina deve curare le sue glorie come un vaso di fiori alla finestra. Due per tutte, ahinoi,  alquanto trascurate:
Ø     il monumento a Cristo Redentore che ci unisce ad altre diciannove città che, in nome della Pace, ospitano monumenti simili (facciamo diciannove gemellaggi, in nome della Pace, quanto prima);
Ø     Giuseppe Battaglini, grande matematico e fondatore del Giornale di Matematiche.
La cura delle glorie è un grande, un inestimabile valore, che va trasmesso ai bambini, ai giovani.
Al riguardo faccio un appello: che riapra as soon as possible Casa Cappellari, vale a dire uno spazio in cui bambini e giovani possano dipingere, modellare, inventare favole, foggiare la latta, osservare i sarti, gli scalpellini, i falegnami e i pittori intenti al lavoro . . . .
Un altro appello:  occorre creare interesse intorno a tutte le iniziative promosse dai martinesi, ovunque vengano fatte, cercando di fare strada insieme secondo la citata logica della staffetta e cercando di evitare di cadere in diatribe sterili, serio ostacolo allo sviluppo della città e, in definitiva, di tutti quanti.
Cosa voglio dire? . . . . . Una cosa semplicissima: se cade per terra “il testimone” a causa di incomprensioni tra gli staffettisti . . . . a perdere non è  solo il frazionista, ma l’intera squadra!
Tutto ciò premesso, consentitemi di menzionare le tre più belle dichiarazioni d’amore a Martina che io abbia mai letto o ascoltato.
La prima è quella di un grande tarantino,  un grande giornalista: Franco Presicci. L’abbiamo ascoltata tutti, con grande commozione, pochi minuti fa. Grazie di cuore, Amico mio.
La seconda dichiarazione d’amore, che risale al 1968, è quella di un grande senese, il padre del restauro moderno: Cesare Brandi. Sia lode e gloria a lui per sempre.
La terza dichiarazione d’amore è datata 29 ottobre 1989 e proviene da un grande polacco, un grande Papa: Giovanni Paolo II. Io quella domenica ero a Martina e con immensa gioia ho visto il Papa percorrere a bordo della Papamobile la nostra piazza principale: “Lo Stradone”.
Il Papa è salito sul palco; aveva al suo fianco il vescovo Salvatore De Giorgi. Ha concluso il suo discorso, rivolto in particolare agli agricoltori e agli artigiani, con le parole  che il mio cuore, la mia mente e la mia anima hanno registrato come mi accingo a dirvi.
“Popolo diletto di Martina, essendo la visita pastorale indirizzata alla città di Taranto, io non volevo venire a Martina”.
Ma il vostro vescovo mi ha detto: “Santo Padre, deve venire a Martina”.
E io gli ho risposto: “Ma perché devo venire a Martina”?
Il vostro vescovo ha insistito: “Santo Padre, deve venire a Martina”.
E io ho ribadito: “Ma perché mai devo venire a Martina”?
Il vostro vescovo ha ripetuto l’invito per la terza volta: “Santo Padre, deve venire a Martina”.
“E solo adesso che ci sono venuto, ho capito perché il vostro vescovo diceva Martina, Martina . . . .Martina”.
Mi avvio alle conclusioni.
Martina deve tornare ad essere, come nel Settecento, laboratorio di cultura.
Anche nel terzo millennio è la cultura che cambia il mondo, crea nuova mentalità, favorisce un nuovo stile.
In un contesto che presenta nuove situazioni sociali, culturali ed economiche è quanto mai necessaria una nuova formazione globale, che attinga dalla ricchezza e dalla sapienza del passato, che consideri il presente e anticipi il futuro.
Uno dei segni più eloquenti della cultura è quello dell’andare incontro…. non la pigrizia e la sedentarietà. Starsene freddi e morti non hai mai pagato: figuriamoci adesso! Dobbiamo istruirci. Occorre organizzarsi. Dobbiamo muoverci.
Si fa  cultura anche coltivando relazioni interpersonali: la cultura unisce e favorisce incontri, che daranno frutti preziosi nella lunga consuetudine che ne seguirà.
Lo dico sempre e, a maggior ragione, lo ripeto questa sera: la cultura rappresenta un obiettivo per realizzare il talento delle persone,  dei giovani in particolare.
Concludo con un augurio: che grazie al volàno dei 700 anni Martina Franca, attualmente “città del Festival”, diventi “città del Festival, della Cultura e della Pace”.
Ce la possiamo fare con . . . . l’impegno di tutti. . . . e l’aiuto di San Martino.
 
 
Francesco Lenoci
Patriae Decus città di Martina Franca
Docente Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
Vicepresidente Associazione Regionale Pugliesi - Milano
 
 
 
 








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