venerdì 05 dicembre 2025


20/09/2025 09:22:24 - Manduria - Cultura

Emilio Greco, autore del volume, narra quasi due secoli di microstoria manduriana, dalla metà del ‘700 agli inizi del ‘900

Il volume “No’ è cieddi no’… nnu illanu èti”, di Emilio Greco, è stato più volte da noi utilizzato per riportare alla memoria alcuni termini desueti del dialetto manduriano, essendo esso costituito dalla stampa di oltre duecento pagine manoscritte su fogli di computisteria “Pigna Filler”, in perfetto dialetto locale.

Mai si è scritto del contenuto nella sua interezza.                                

L’Autore, sullo sfondo delle più ampie trasformazioni storico-politiche e socio-economiche che interessano il Regno di Napoli prima e l’Italia unita poi, innesta quasi due secoli di microstoria manduriana, dalla metà del ‘700 agli inizi del ‘900. Egli si pone in una posizione critica rispetto alla cosiddetta ‘civiltà’ e al nuovo che avanza, soprattutto in relazione alle condizioni di vita del ‘contadino’, che sembrano non migliorare mai nonostante tutto intorno a lui risenta dei benefici del progresso e, successivamente, dei cambiamenti positivi apportati dal nuovo Stato unitario. È una critica che Emilio Greco muove non in modo aprioristico, ma con ragionamenti suffragati dalla conoscenza della realtà di cui scrive, preoccupandosi di dimostrare al lettore la veridicità di quanto va scrivendo.  D’altro canto, il lettore, più volte chiamato in causa e immerso nella più cruda realtà della vita contadina, viene a conoscenza, anche attraverso lo spessore linguistico dei termini dialettali, di antichi usi e costumi, di passate tradizioni del popolo manduriano, ma, soprattutto delle fatiche, delle speranze e delle delusioni di diverse generazioni di contadini. La speranza più grande di tutte? Possedere un pezzo di terra e un altro di pane. 

Due i protagonisti dello scritto, entrambi da ‘tutelare’ per le future generazioni: il contadino con il suo vissuto di fatica e privazioni e il dialetto che lo narra. Un brano esemplificativo:

«(…) lu illanu eru, fatiatori, ffizziunatu alla terra (toppu ca no era sua) sicutaa a tirari annanti culla fami, cu lli sacrifiggi, cu ogni sorta ti patimenti, ma unestamenti; suppurtannu ogni ccosa cu lla santa pacienzia e ssenza cu ssu ribbillaa mai, toppu ca ntra’ iddu nchiummaa e nchiummaa sempri ilenu sobbra ilenu! Nc’erunu mumenti, ca eramenti, lu sangu li nchianaa alli uecchi e lli iniunu sincumi cu ccummittia ci sapi cce’ ccosa! Ma piuei si carmaa e raggiunannu ntra ‘ iddu ticia: (…) Iè mmeiu cu ncrinu la capu e cu mmi la piiu pi ll’mori ti Ddiu, ca iddu sulu mi po’ ddari la forsa cu tiriannanti cu lla santa pacenzia sta misara ita ca ‘ou minannu!» (trad. “il contadino vero, lavoratore, affezionato alla terra (anche se non era sua) continuava ad andare avanti con la fame, con i sacrifici, con ogni sorta di patimenti, ma onestamente; sopportando ogni cosa con la santa pazienza e senza mai ribellarsi, nonostante dentro di sé accumulasse sempre veleni! C’erano momenti, veramente, che il sangue gli saliva agli occhi e gli venivano ‘sincumi’ di commettere chissà cosa! Ma poi si calmava e ragionando ra sé si dieva: (…) E’ meglio che io chini il capo e mi rassegni per l’amor di Dio, perché solo lui mi può dare la forza di tirare avanti con la santa pazienza questa misera vita che vado menando!”, p. 24).

Singolare l’aspetto comunicativo del testo: nonostante il linguaggio semplice e colloquiale e lo stile diretto, talvolta carico di amara ironia, si evidenziano in tutta l’opera complesse tecniche comunicative. Fin dalle prime pagine, l’Autore, voce narrante e contadino egli stesso, ricorre all’espediente narrativo del “finto interlocutore”, simulando un’interazione con il lettore, al quale pone domande, riportandone le risposte, fino a richiedere la sua presenza come testimone di ciò che sarà detto: «… così ascoltate con le vostre orecchie (...) beh! non vi fate vedere, mettetevi dietro un muretto e ascoltate bene quello che diciamo». A questo punto (p. 124), la comunicazione da lineare diventa quasi ‘teatrale’ e il lettore si trova a leggere una vera e propria sceneggiatura: «Prima scena. La scena dove si svolge questa chiacchierata è una strada di campagna piena di rocce, solchi, pietre, rovi, calycotome, ginestrone (…). Vengono altresì presentati i personaggi e, con un ulteriore espediente narrativo, l’Autore dissocia il tempo della scrittura (l’opera viene scritta nel 1974) dal tempo del racconto presentato al lettore: «L’epoca in cui si svolge questa chiacchierata è l’anno 1914, e i personaggi che la interpretano sono: io stesso all’età di otto anni [età reale dell’Autore nato nel 1906], Gregorio, un contadino qualsiasi e due ragazzi, figli di Gregorio».

L’opera si presenta alquanto composita anche dal punto di vista narrativo. In una prima parte introduttiva, l’Autore si sofferma sullo svolgimento quotidiano della vita contadina all’inizio del Novecento, scandita da ataviche abitudini ormai minate dal progredire delle istanze della civiltà. Segue il racconto, reso sempre in prima persona, delle trasformazioni avvenute nel mondo contadino, inserite in ampi confini temporali entro i quali esse possono essere avvenute:  1) metà del 1700 – 1830, la proprietà fondiaria non più in mano a poche famiglie nobili, ma allargata ai ‘galantuomini’; 2) ventennio 1830 – 1850, assegnazione, da parte dei nuovi proprietari, di un pezzo di terra ai contadini che ne facevano richiesta, nascita dell’enfiteusi; 3) 1850 – primi decenni del ‘900, assegnazione delle terre demaniali. La successione storica è inframmezzata dal suggestivo racconto relativo alla genesi della processione penitenziale di San Pietro in Bevagna, ideata e fortemente voluta proprio dal contadino, per ottenere la pioggia in periodi di estrema  siccità.

Come accennato, un cambio di registro narrativo caratterizza l’ultima parte dell’opera, una sorta di rappresentazione scenica a più voci, una delle quali è quella dell’Autore bambino, che, ripercorrendo mentalmente tutto ciò che fino ad allora ha ascoltato, arriva infine a comprendere appieno il significato della frase titolo del libro, pronunciata dal sagrestano in risposta alla sua domanda su chi fosse il morto per il quale suonava le campane: «No’ è ccieddi no’ … nnu illanu eti!» ( = “ Non è nessuno no … E’ un contadino!” ).