venerdì 05 dicembre 2025


04/10/2025 08:14:25 - Manduria - Cultura

L’accordo che sarebbe dovuto restare “segreto” fra i padroni e i contadini nella seconda metà del ‘700

Il termine dialettale manduriano “cittu” deriva dal latino (ta)citus, con significato di “zitto” e funzione di aggettivo; ripetuto due volte, “cittu cittu” ha significato di “in silenzio, senza che nessuno sappia”.  Un ulteriore accezione della locuzione “Cittu cittu” è quella di essere un toponimo. Esiste, infatti, nel territorio di Manduria una contrada (e anche una via) censita in Catasto al foglio 35, denominata proprio così: essa è situata a Nord del convento di S. Antonio, sulla strada  provinciale 98, che porta al santuario di San Cosimo alla Macchia.

Certamente esiste sempre una motivazione per la quale un determinato toponimo identifica un determinato luogo, ma quella sottesa alla contrada “Cittu cittu” è davvero singolare. Ne scrive Emilio Greco nella sua opera “No’ è ccieddi no’ … nnu illanu èti!”.

A partire dalla seconda metà del ‘700, la proprietà terriera di Manduria subisce delle trasformazioni: i nobili proprietari vendono i loro possedimenti ai ‘fattori’, questi, a loro volta, ai ‘signori’, i quali, accortisi del desiderio del contadino di possedere un pezzo di terra, gli fanno credere che sia arrivato il momento giusto per ottenerlo.  

In tutto ciò, cosa c’entra il toponimo “Cittu Cittu”?

Riportiamo alcuni passi in dialetto tratti dal testo, seguiti dalla traduzione:

«Rrinnuciri sti terri, ca bb’aggiu tiscritti moni, a terri curtiabbili era, pi lli pratuni, nna’ cosa propria mpussibbili (…). Ma puei utàunu pàggina e ddiciunu puru: “E cci li sicutamu a ttiniri sciersi no’ ddonnu nudda rennita. E ca purcé a mu spisu tanti turnisi cu lli ccattamu sti terri?” (…)».

Rimugina oggi, rimugina domani, arrivarono a una soluzione. Il padrone chiamò a se, tramite il caposquadra,  un contadino, e, fra le altre condizioni (consegnargli una parte del raccolto, non toccare nulla prima che fosse trascorsa la festività di San Giovanni): «E nn’otra cosa, òiu ca, fin’attannu nisciunu na’ ssapiri nienti ti lu cumminatu c’amu fattu, la terra ca ti stà ddou, ti la stò ddou cittu cittu ti tutti, ci no’ succeti ca ci lu zziccunu a ssapiri l’otri mo è bbi comu mi ann’a stonunu ca la olunu puru lorui» (…) «E tutti si staunu citti purcé ognitunu si nn’assia ti ntr’allu palazzu commintu ca iddu sulu era statu bbinifiggiatu ti lu pratunu».

Accadeva così che quando un contadino ne vedeva un altro a poca distanza da lui, credeva che l’altro stesse lavorando a giornata e non per conto proprio, ma quando due fratelli si trovarono a lavorare in due terreni contigui… scoppiò il caso. Dapprima i contadini rimasero sconcertati, «ma puei quannu capèra èpi ccè ccosa lu pratunu er’usata quedda srùzzia, si feci ara capaci e la cosa la utàra a rrisa, e cuiunannu cuiunannu, quedda cuntrata la zziccara a chiamari “lu cittu cittu” e cussì si nn’è sciuta fin’ammoni, tantu ca puru lu catasu, quedda cuntrata la porta comu “lu cittu cittu”- E ci ncè ncunu ti ùi ca oli ssaccia ddo eti sta cuntrata, bbasta cu bbàscia retu alli Cappuccin, cu ppiia la strada ti “casa rossa” e toppu passata la “massariola” ti ton Carlu Skaoni e ddifronti, nfacci a ddo poni lu soli, alla chiantata ti “lu libboriu, ddà + la cuntrata ti lu “cittu cittu”. Pirdenni no’ è ffilu nna fabbula ca bb’aggiu cuntatu» (pp. 87-92).

Traduzione:

«Ridurre quelle terre che vi ho appena descritto [piene di massi] in terre coltivabili, era per i padroni davvero impossibile (…). Ma poi voltando pagina dicevano anche: “Se le continuiamo a tenere non coltivate non danno alcuna rendita. Perché avremmo speso tanti soldi per comprarle?” (…)».

Rimugina oggi, rimugina domani, arrivarono a una soluzione. Il padrone chiamò a se, tramite il caposquadra, un contadino, e, fra le altre condizioni (consegnargli una parte del raccolto, non toccare nulla prima che fosse trascorsa la festività di San Giovanni): «Un’altra cosa, voglio che fino ad allora nessuno deve sapere niente dell’accordo che abbiamo fatto, la terra che ti sto consegnando, te la sto dando all’insaputa di tutti, altrimenti (…) verrebbero ad importunarmi anche gli altri» (…) «Tutti stavano in silenzio perché ognuno usciva dal palazzo convinto che lui solo fosse stato beneficiato dal padrone».

Accadeva così che quando un contadino ne vedeva un altro a poca distanza da lui, credeva che l’altro stesse lavorando a giornata e non per conto proprio, ma quando due fratelli si trovarono a lavorare in due terreni contigui… scoppiò il caso. Dapprima i contadini rimasero sconcertati, «ma poi, quando capirono per quale motivo il padrone aveva utilizzato quell’astuzia, si acquietarono e ci risero sopra e scherzando scherzando, chiamarono quella contrada “Cittu Cittu”, e così è chiamata fino ai nostri giorni, al punto che anche il catasto individua quella contrada come “Cittu cittu”. E se qualcuno di voi vuol sapere dove si trova questa contrada, basta andare dietro al convento dei cappuccini, prendere la strada di “Casa rossa” e dopo passata “la Masseriola” di don Carlo Schiavoni e di fronte, dalla parte dove tramonta il sole, alla piantagione di “Libborio”, lì è la contrada “Cittu cittu”. Quindi non è certo una favola quella che vi ho raccontato».

Così in Emilio Greco, “No’ è ccieddi no’ … nnu illanu èti!”, Barbieri editore, Manduria 2011, pp. 91-92