Anche a Manduria le neomamme fasciavano i propri bambini. L’operazione della fasciatura richiedeva tempi lunghi e tanta esperienza: il neonato veniva adagiato su un piano facente funzione di fasciatoio (“littèra”)…
“Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia di una stalla, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2, 7)”
È la descrizione di una nascita irripetibile, quella di Cristo, tale da segnare un prima e un dopo negli accadimenti della Storia. Eppure per ricercare le origini della pratica di cui scriveremo dovremo risalire al mondo arcaico, attraversando velocemente i secoli fino a giungere alla metà del Novecento per poi fare un salto nell’attualità del nostro tempo: si tratta della fasciatura dei neonati, adottata per tenere al caldo il corpo del piccolo e per prevenire malformazioni e cattive posture della sua tenera struttura ossea.
La più antica testimonianza della fasciatura di neonati è conservata nel museo archeologico di Capua: si tratta di 160 sculture osche realizzate in tufo, raffiguranti madri romane sedute che recano in grembo uno o più bambini in fasce (fino a 12). Conosciute come “Matres Matutae”, le sculture sono collocate fra il VI e il II sec. a.C., afferiscono al culto delle ‘matralia’ e sono ex voto offerti dalle matrone romane alla dea della fecondità Mater Matuta per l’ottenimento di una desiderata maternità. Testimonianze simili arrivano dal santuario di Vulci, in Etruria, dove troviamo statuine in terracotta di neonati con una fasciatura a spirale, e dal museo archeologico di Atene.
Nell’antica Roma, si arrivò perfino a “regolamentare” la pratica della fasciatura. Sorano di Efeso, un medico greco che esercitò a Roma nel II sec., scrisse un trattato, “Sulle fasciature”, in cui consigliava di ungere il corpo del neonato con olio prima di procedere alla fasciatura, con fasce rigorosamente di lana. L’operazione era dettagliatamente descritta: dovevano essere fasciate prima le braccia, poi il torace, e infine le gambe, una alla volta e poi unite; a questo punto, una larga fascia doveva coprire il bambino dai piedi al collo, mentre un’ultima benda fissava tutto il corpo, avvolgendolo a spirale.
Un salto nel Medioevo, la procedura non cambia. il medico Zucchero Bencivenni all’inizio del ‘300, sosteneva che «siccome la cera quando è calda prende ogni forma che l’uomo gli vuol dare, così il fanciullo prende allora la forma che gli è dovuta». Così, almeno nelle famiglie più abbienti, il neonato lo si avvolgeva dapprima in un tessuto di lana, per mantenerlo caldo, poi ricoperto con tessuti di lino o di cotone e poi fasciato per evitare che le sue tenere ossa, incapaci di sostenere il corpo, potessero deformarsi. Il colore della fasciatura era indice dell’appartenenza a classi sociali differenti: di colore scuro (perché di canapa grezza) per le famiglie povere, di colore bianco o rosso (il colore rosso aveva una valenza apotropaica nell’allontanare gli spiriti maligni) per le famiglie aristocratiche.
Anni ’60 del ‘900. La fasciatura continua ad avvolgere i neonati a tutte le latitudini!
E a Manduria? Anche nella nostra città le neomamme fasciavano i propri bambini.
L’operazione della fasciatura richiedeva tempi lunghi e tanta esperienza.
Il neonato veniva adagiato su un piano facente funzione di fasciatoio (“littèra”) e si procedeva seguendo un ben preciso ordine. Il primo ‘strato’ della fasciatura era di tessuto leggero e morbido (cotone Pelle Uovo, cotone Makò o lino), perché a contatto con la pelle delicata del bambino, aveva una forma rettangolare e misurava approssimativamente un metro di altezza per cinquanta centimetri di larghezza; esso veniva ripiegato, dapprima attorno alle gambe del bambino e poi alzato fino a coprirgli la pancia. I teli di cotone leggero erano chiamati “spràjini”. Seguivano altri due o tre teli delle stesse dimensioni, ma in cotone pesante, tessuti in casa al telaio. A questo punto compariva “lu pitarulu”, anch’esso di cotone pesante lavorato, il cui scopo era di ‘contenere’ i vari strati sistemati precedentemente, e per questo veniva chiuso con delle fascette nella parte inferiore. L’operazione continuava avvolgendo il bambino con la ‘fascia’ vera e propria (“fassa”), in cotone pesante, lunga due metri e mezzo e larga trenta centimetri, fornita di fascette alle estremità per essere legata al corpo. All’interno della fascia, era di buon auspicio inserire una medaglietta raffigurante la Vergine Maria. L’indumento ‘finale’ era “lu buggiu”, che poteva presentarsi unito, a mo’ di tutina, oppure nella variante spezzata in vita (camicina e una sacca con laccetti), preferibile, per ovvie ragioni igieniche. Nella maggior parte dei casi, i bambini venivano fasciati fino all’ombelico (compreso), lasciando libere le braccia, altre volte fino alle ascelle. In entrambi i casi si provvedeva a dotare il piccolo di morbide camicine di mussola senza maniche chiuse dietro da laccettini (“camisodddi”) e di “sciuppridduzzi”, corpetti con le maniche (in flanella o in tessuto più leggero a seconda delle stagioni). I neonati rimanevano in fasce per cinque-sette mesi secondo la stagione, in ogni caso per un numero di mesi che doveva essere dispari.
Tutto questo avveniva nonostante il parere contrario dei medici.
Fin qui le fasce della tradizione, progressivamente abbandonata negli anni Settanta del Novecento. L’attualità, invece, ci propone lo “swaddling”.
La pratica dello “swaddling” è una fasciatura tradizionale al netto di bende troppo strette e della lingua italiana. Consiste in un rettangolo di stoffa, abbastanza grande e leggero (mussola di cotone), con il quale avvolgere il bambino seguendo determinati passaggi, assicurandosi che non sia fasciato troppo stretto e che possa muovere agevolmente le gambe (su youtube abbondano i tutorial per le neomamme). Lo scopo è quello di far recuperare al neonato la sensazione di benessere e protezione vissuta nel grembo materno.
Di seguito, la testimonianza della sig.ra Vincenza D., 88 anni, fonte orale delle informazioni relative alla fasciatura a Manduria negli anni Sessanta del Novecento.
«Si mittìa prima prima lu pannolinu finu, (…) ti tessutu leggeru, linu finu finu, makò o pelle d’uovo (…), era quadratu granni, si nturtijaunu li jammiteddi e si alzava sopra, e mintii lu primu pannu, lu secondu pannu ti robba chiù pesanti, fatt’a casa, si ni mintìunu nu treti, puei lu pitaluru e ti sobbra nturtijaunu la fassa (…), lu pitaluru è chiusu ti sotta, lu mintiunu cu copri tutti ŝti cosi interni e puei jeri a mmucciari lu iddicu. Li camicini erunu nnu picca scollati, a giri, cu li laccettini retu, ti mussola erunu fini, sotta alli carnicieddi, taccati cu li laccettini, noni bbuttuni perché rimaniunu moti fiati curcati. Quiddi cu li manichi puru ti piché, tutti fatti rombi rombi. Li razzi si lassaunu liberi, puei si mintìa la camicina larga comu nu grembiulinu cu copri tutti ŝti cosi e si mintìa lu buggiu, si mintìa ti sobbra alla fassa cu no pari la fassa (…). Moti li nfassaunu sinu a sotta li ascelli. Ntra li fassi che si nturtijaunu si mintìa na medaglina celesti, era la Matonna.
Li dottori no erunu tantu d’accordu, ca tici ca a postu cu li ggiuustamu li deformaumu li piccinni, tantu tiempu, noni ca erunu d’accordu. ».
Per le foto a corredo dell’articolo, si ringraziano le signore Immacolata T. e Vincenza D.
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., “La donna ieri e oggi – Il vissuto nelle immagini”, Arti Grafiche Pugliesi, Martina Franca 1996 pp. 30-31;
BRUNETTI PIETRO, “Vocabolario essenziale, pratico e illustrato del dialetto manduriano”, Graphica PC&C, Manduria, 1989;
FRUGONI CHIARA., “Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini”, Il Mulino, 2017;
MANCINO ANNA M. STELLA, ‘C’era una volta in una masseria un pastore…’, in “QuaderniArcheo”, Periodico di cultura a cura di ArcheoClub Manduria, N. 2, marzo 1997;
NAVA MARIA LUISA (a cura di), “Museo Provinciale Campano di Capua. Guida alle collezioni”, Provincia di Caserta, 2012-2021.
SITOGRAFIA
https://www.aracne-galatina.it/la-nascita-nel-mondo-classico/

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