giovedì 25 aprile 2024

07/01/2021 11:05:55 - Manduria - Attualità

La testimonianza dell’infermiera Fortunata Barilaro, in servizio nei reparti Covid del “Giannuzzi”

«Da quando questo virus ha modificato la nostra vita, anche in quella quotidianità così come era stata vissuta sino ad allora, il nostro credo si è concretizzato nella speranza che si potesse giungere ad un vaccino».

Per Fortunata Barilaro, infermiera dell’ospedale Covid “Marianna Giannuzzi” di Manduria, quella speranza si è concretizzata lunedì mattina.

«Sul mio braccio sinistro, ho da sempre una piccola cicatrice, comune a me e alle generazioni passate. Memoria di uno dei primi vaccini che mi vennero somministrati, quello per il vaiolo» è la premessa di Fortunata Barilaro. «Nella mente ho il mio amico dell’età giovanile, che da sempre ha dovuto camminare con le stampelle, quello che da bambino non ha potuto correre dietro un pallone, perché colpito dalla poliomielite. Qualcosa che le nuove generazioni hanno la fortuna di non conoscere grazie ad un vaccino.

Nella mia particolare mattina, la memoria è andata ai tanti vaccini fatti, quelli per proteggere me stessa, quelli per proteggere gli altri. In una professione come la mia, da sempre svolta in area critica, il valore di quelle somministrazioni ha avuto un significato diverso. Chi ha lavorato al mio fianco in questi anni, mi ha spesso sentita ripetere che fosse un dovere e non solo un obbligo sottoporsi ai vaccini. Non dettame di un senso di autoprotezione, ma di un dovere verso quei pazienti fragili, per i quali anche il comune virus influenzale potesse assumere i connotati di un evento letale».

Il pensiero ritorna alla prima ondata della pandemia.

«Da quando tutto ebbe inizio, noi sanitari, per primi, ci rendemmo conto che non si trattasse di una banale influenza, ma di un evento sconosciuto e letale» prosegue l’infermiera del “Giannuzzi”. «Sapevamo che, al di là delle cure che si andavano sempre più raffinando, la fine da un incubo che ha coinvolto il mondo intero risiedeva nel vaccino.

Personalmente ho sempre avuto fiducia in quegli scienziati che, chiusi nei loro laboratori giorno e notte, mentre noi combattevamo sul campo, avrebbero fatto sì che quel sogno si potesse avverare.

Lunedì è toccato a me.

L’emozione mi ha accompagnata scendendo quelle scale e percorrendo quei corridoi sino alla stanza in cui un collega mi avrebbe somministrato la prima dose di vaccino anti Covid-19.

Ho pensato che avrei potuto riabbracciare la mia famiglia, i miei amici. Ho pensato che mi sarei riappropriata di un’identità che ho dovuto nascondere perché il mio corpo poteva essere veicolo per un virus. Ho pensato che quei reparti pieni di così tanta sofferenza e solitudine sarebbero potuti diventare solo un ricordo.

Ho pensato al mio amico, quello che da bambino non ha mai potuto correre dietro un pallone e ai tanti bambini che hanno potuto farlo, grazie ad un vaccino. Oltre quella soglia, il mio appuntamento con la storia».









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